Nel testo delle precedenti note pubblicate a corredo delle nostre uscite sulla Castellina, abbiamo sempre tracciato un profilo storico globale, sintetico, del sito; significativi appaiono i suoi ultimi secoli di vita, sottesi al destino del popolo Rasenna, nel contesto storico e politico territoriale..............
540 a.C., si è da poco conclusa la battaglia navale di Alalia, avanti il “Mare Sardonio”. Etruschi di Cere e Cartaginesi, temendo ricadute dei loro traffici commerciali verso il Tirreno occidentale, hanno affrontato la flotta “focese”, stanziata in Corsica, per proteggere il loro “emporio” isolano di Alalia e la colonia di Massilia (Marsiglia).
Le ostilità tra etruschi e popolazioni elleniche, si erano già manifestate precedentemente con pochi significativi scontri navali. Era in gioco il dominio sul Mediterraneo, i “ceretani” possedevano una potente marineria stanziata nei porti di Pirgy, Marangone, Punicum, Alsium etc.. Condividevano con i cartaginesi l’appellativo di “popoli del mare”. Indiscussa la loro talassocrazia!
Le possenti “biremi” rasenna, ancor prima di ogni altro popolo, erano state munite di un potente rostro di poppa, tutt’uno con la chiglia, che agganciava le navi arrembate privandole del “governo”. Sopra questi, una piattaforma sopraelevata consentiva ad abili arcieri di colpire dall’alto gli equipaggi nemici.
Il rapporto amichevole tra Etruschi e cartaginesi, meriterebbe maggiore studio, e si pone ben oltre la condivisione, in perfetta armonia, di comuni interessi commerciali e marittimi. I due popoli controllavano tutto l’arco marittimo del Tirreno e le sponde dell’Africa settentrionale, la Sardegna e le coste della Spagna.
L’esito della battaglia di Alalia appare controverso. Secondo Erodoto i Focesi vinsero sulla coalizione etrusco-cartaginese, ma ebbero numerose perdite. Gli alleati, fatti molti prigionieri, consolidarono il dominio sulla Corsica e sulle coste “francesi”. I superstiti Focesi dovettero ritirarsi nel sud Italia con 20 navi, su cui avevano imbarcato donne e bambini, ove fondarono Reggio. Questo ripiegamento verso la magna Grecia mette in discussione l’esito del conflitto raccontato dallo storico greco!
La flotta etrusca ha fatto ritorno nel porto di Pirgy. Al seguito, oltre al bottino di guerra, le navi Rasenna, recano 500 prigionieri. Condotti su Monte Tosto (rif. escursione Cascate del Sasso) vengono lapidati ad opera della popolazione civile ceretana, ma c’è qualche autore che pone il luogo dell’eccidio sulla spiaggia di Pirgy. Il feroce accanimento si deve alle razzie perpetrate in passato dai Focesi, senza pietà, sulle coste tirreniche.
I corpi dei focesi vengono accatastati e lasciati marcire al sole! Le bianche ossa, restano in vista per molti anni a monito del mondo nemico!
Chiunque passava da quelle parti, alla vista di quell’enorme catasta di ossa, veniva colpito da pazzia. Nel territorio si diffusero pestilenze e carestie.
In Cere, i saggi, volendo chiarire i motivi di queste avversità, presero la decisione di consultare l’oracolo di Apollo nel santuario di Delfi sul Monte Parnaso. L’oracolo per la voce della “Pizia”, attribuì tali sventure alla feroce lapidazione dei prigionieri Focesi. Per placare le ire degli Dei, gli etruschi sono costretti ad istituire giochi ginnici, equestri e sacrifici nel luogo dell’eccidio.
Seguiranno successivi scontri con popolazioni elleniche. Ma la Battaglia di Cuma, nel 474 a.C., scardinerà il dominio sul mare degli etruschi.
Su un elmo in bronzo, bottino di guerra, ex voto dei Siracusani ad Olimpia, una frase dedicatoria iscritta, documenta così la disfatta etrusca di Cuma: “Hieron di Dinomene e i Siracusani a Zeus, (preda) dei Tirreni da Cuma”.
(Londra Museo Britannico: da Olimpia)
Brutta sorte tocca al ricco santuario di Pirgy. Nel 384 a.C. Dionisio I di Siracusa lo depreda completamente. Dedicato a Leukothea od Ilizia ed anche alla dea fenicia Astarte, fruttò al siracusano ben mille talenti. Una bella fortuna che tanto la dice sull’importanza del santuario. Tra le rovine del tempio vennero alla luce, nel corso di recenti scavi, le famose lamine d’oro, in testo bilingue, con dedica del lucumone Thefarie Valianas alla dea Uni, assimilata ad Astarte. Tra le altre cose rese dal sito, seppur in frantumi, un bellissimo frontone fittile, rappresentante il mito dei “Sette a Tebe”, che doveva ornare la facciata del tempio.
Da questo momento (280 – 271 a.C.) inizia, nel giro di un paio di secoli, la perdita del controllo marittimo del popolo Rasenna. Un terzo incomodo dominante, l’esercito romano, ha fatto “banco” di tutti i popoli italici.
Cere in particolare, sulle altre, subirà le conseguenze disastrose della disfatta! Ai ceriti venne lasciata una pallida ombra di autonomia. Particolari le condizioni imposte: rinunziare al diritto di dichiarare guerra e concludere la pace. Perdita dei diritti e poteri civili e giudiziari, con l’onere di pagare i tributi e di contribuire alle coscrizioni. Tutta la popolazione cerite viene annessa a Roma, senza l’esercizio dei diritti politici (cives sine suffragio).
La nostra “Castellina”, malgrado le sue elevate mura urbiche di c.a. 700 metri, non tiene alla furia degli invasori. Con lei cadono in mani nemiche miniere di ferro, piombo ed altri minerali, dei Monti della Tolfa, il bel porto fluviale sul Marangone, ornato di palafitte, le sue navi e tutte le vie di comunicazione. I suoi abitanti vengono “deportati” nella colonia marina di “Castrum novum”. Da allora le rovine del paese, le necropoli, abbandonate sul colle del Marangone, verranno sopraffatte dalla fitta vegetazione e si dissolveranno per sempre nel nulla, trascinandosi dietro loro sconosciuta storia. E’ da poco passato l’anno 280 a.C.
Gli abitanti della Castellina vengono deportati a Castrum Novum e seppur dichiarati “cittadini romani”, privati dei diritti civili e politici, cives sine suffragio. La stessa sorte degli abitanti di Cere, quindi la Castellina apparteneva alla lucumonia cerite?
Tanti archeologi si sono avvicendati nello studio della Castellina, ma da quel poco che hanno potuto trarre, non è trapelata la “nazionalità”, ceretana o tarquiniese del sito! Passiamo brevemente in rassegna gli studiosi “ufficiali”, che si sono avvicendati in campagne di scavo sul colle della Castellina:
L’Abeken lo potremo definire il “padre putativo” delle “guardiole”, particolari tombe a capanna, singolari in Etruria, con tetto spiovente, rinvenute sull’omonimo Colle, sopra Capo Linaro. Mentre una di queste è ancora visibile nel giardino del Comune di S.Marinella, le altre saranno state sicuramente interrate dall’archeologo. Trovate in numero di 60, risultano scomparse totalmente dal sito”!
Ma è il Prof. Bastianelli che ha fornito lo studio più completo sul sito, fonte primaria delle nostre conoscenze. Ignoriamo altri trattati o testi realizzati al riguardo. Tra l’altro il nostro caro Professore ha scoperto anche residui di materiali ferrosi intorno alle mura della Castellina, determinando che il Centro marittimo sfruttava le miniere di Monte Zanfone (poi “Castrum Ferrariae”) e di altri luoghi limitrofi.
Dunque apparteneva a Cere o Tarquinia la Castellina? Quale era la linea di demarcazione tra le due lucumonie, il Mignone od il Marangone?
Disponendo oggi di validi strumenti informatici (carte topografiche molto accurate – immagini fotografiche aree del profilo terrestre) oltre ad una discreta conoscenza delle barriere fisiche naturali presenti sul territorio, possiamo provare a risolvere, dal nostro punto di vista, questi enigmi.
Secondo noi il reale confine tra Cere e Tarquinia, come meglio indicato nell’acclusa carta, seguiva l’andamento del Fiume Mignone.
Appartenevano alla lucumonia Ceretana la regione costiera compresa tra il fiume predetto e la parte occidentale dei Monti della Tolfa, fino quasi a toccare il bacino del Tevere,
Significativa uscita del Tiburzi oggi. Il Colle della Castellina si offre sempre con discrezione, ma senza dispensare panorami e sensazioni particolari. La cisterna, i resti dei fondi delle capanne, Il solito indistruttibile tramezzo della casetta dei cacciatori, proprietari delle multicolori cartucce calibro “12”, abbandonate sulle radici del verde e profumato lentisco, la civiltà dei consumi ha fatto perdere la buona abitudine di riutilizzarne i bossoli. Ma oggi “passiamo sopra” a tutto, è carnevale, e noi associamo i variopinti bossoli abbandonati in terra ai coriandoli lanciati in aria dai “bambini” mascherati!
La scarna necropoli del colle alto, dopo il disastro perpetrato ai danni delle deposizioni dei fossi Cupo e delle Guardiole, rende una pallida idea sulla vita ed abitudini della nostra popolazione passata. In compenso il bel bosco delle Volpelle e del Semaforo, ripagano il Gruppo degli sforzi costati nel superare gli “strappi” del pendio. Ma sta all’abilità della guida far rivivere nel pensiero e negli occhi dei convenuti il segreto mondo della Castellina, molto più lontana da noi nel tempo, che i duemila e duecento anni e passa, che temporalmente ci separano.
Presto lasciamo il nostro “ermo” Colle ai suoi attuali abitanti, due begli esemplari di cavalli maremmani. La femmina, ferita vistosa ad una gamba posteriore, trascina dignitosamente la sua invalidità, ma non ascolta i nostri amorevoli richiami, le nostre dolci parole gettate al vento. Le nostre sembianze sono simili a quelle delle persone che le hanno procurato tanto dolore.