Nel periodo post-bellico, potevamo avere otto, nove anni, quando ancora chiamavano “camminate” le uscite nei boschi, andavamo già spesso, per diletto o spinti da un istinto ignoto, su e giù per sentieri impervi nelle macchie circostanti la città. Mal equipaggiati, senza meta precisa. lasciavamo spesso le nostre abitazioni per cinque, sei ore di seguito, senza peraltro autorizzazione dei nostri genitori.
Spinti da un intimo desiderio di avventura, uscivamo “fuori porta”, in lungo ed in largo per il nostro territorio, allora ricoperto completamente di macchia mediterranea. Ed era così bella, profumata e rigogliosa, già fin dietro le nostre abitazioni: come quella che oggi troviamo ancora nel Parco dell’Uccellina.
Ricordo che era difficile, una volta raggiunto il bosco, riuscire poi a ritrovare la strada di casa. Io, per la verità, in merito, me la cavavo abbastanza bene. Di questo se ne erano già accorti un po’ tutti nel gruppo, tanto che in breve mi ritrovai avanti a guidare gli itinerari. Per la verità, e questo è e sarà sempre mio perenne rammarico, la maggior parte delle volte raggiungevamo i boschi per rubare i nidiacei degli uccelli dagli alberi, che poi allevavamo nelle nostre case con cura ed amore! Non capivamo allora, né potevamo contare sugli esempi dei nostri genitori, il danno che procuravamo alla fauna ed all’ambiente. Tale e quale a quello che ancora oggi perpetrano i nostri cacciatori, ora con mio inguaribile rammarico.
Ed io, con il mio infallibile “G.P.S.” mentale, non facevo una grinza. Con una precisione spaventosa, mi spostavo entro i boschi, e non si salvava niente e nessuno, con il mio seguito di ragazzi. A Monte Cucco, avevamo un nido di gheppio su un’alta quercia, giunti sotto l’albero uno lo risaliva per controllo, per verificare se erano nati i piccoli. Visitavamo poi un nido del biancone su Montecucchetto (capovaccaio, rapace ormai scomparso dalle nostre parti); e poi vari nidi di poiane, sparviero, nibbio, merlo, verdoni, passeri, cardellini e cornacchie ed ancora, nei campi liberi, nemmeno scampavano alla razzia i nidi di allodole, capinere, averle (crastiche in dialetto locale) quaglie e calandroni, niente veniva risparmiato. I nidiacei più ricercati erano comunque quelli di gheppio, sparviero, merlo e calandrone.
Questi ultimi perché (sic!) una volta che i piccoli erano cresciuti, cantavano così bene (ma quel canto era prerogativa soltanto degli esemplari maschi però …). Pensate che il merlo maschio, dopo due anni di cattività, ripeteva magistralmente motivetti di nostre canzoni del tipo “siamo ricchi e poveri…” . Era un dramma scoprire poi, col tempo, che gli esemplari che si stavano allevando, talvolta risultavano di sesso femminile!
In primavera li liberavamo, senza pensare che ormai trattandosi di fauna disadattata, nel suo ambiente naturale finiva in breve preda di gatti, volpi o falchi. Neanche i rettili venivano risparmiati, tiravamo di fionda con una precisione spaventosa, anche a distanza colpivamo un bersaglio: vipere, serpi, ramarri (ragani) lucertole, girini, rane, rospi, grilli, erano nostri nemici. A volte catturavamo anche vipere e serpi vive con estrema destrezza.
Poi, crescendo e col passare del tempo, abbiamo cominciato a proteggere questi animali anziché catturarli. Giacché quanto ad amarli, li amavamo a modo nostro già fin da ragazzi, e solo a tanto ci spingeva una sorta di feticismo, di possesso infantile, di esorcismo, verso chi, aprendo le ali si librava alto nel cielo, mentre noi rimanevamo giù, vittime della forza di gravità permanente, o verso chi, con un semplice morso, ti spediva all’altro mondo.
Da questi presupposti più o meno piacevoli, nasce in seguito, nel nostro ambito, intorno agli anni ‘70 un gruppo di forti camminatori. Lunghe passeggiate domenicali, striminzite grigliate nei boschi (panonto) con stecche di legno, massimo rispetto ed amore per la natura (flora e fauna). Man mano nel gruppo si introducono altri elementi validi: “ciascuno apporta sempre qualcosa di nuovo”. Il Gruppo si espande, in città si parla di noi! Finché, verso gli anni ’90, dopo che il gruppo ormai è affermato, per stupide politiche interne, si scinde. Da quel momento matura in me il proposito di attaccare per sempre al fatidico chiodo gli scarponi da trekking. Avevo chiuso definitivamente con le passeggiate in campagna, con quel tipo di uscite si intende. Tanto era il dolore, il rammarico e il pensiero di non rivedere più amici luoghi, che avevo frequentato per anni e tanto amato. Tutto era finito così, per banali incomprensioni, per gelosie interne; i tanti ricordi di avventure, le schiette giornate felici venivano soverchiate dalla superbia e dal cinismo di qualcuno, e tutto sopisce in un baleno.
Passano alcuni anni ed un bel giorno d’estate, sugli scogli del mare nostrum al “Piccolo Paradiso” per l’esattezza, vengo identificato, da una decina di persone, nel soggetto di cui si parla in giro, quando il discorso verte su belle passeggiate nei boschi. Vogliono e mi chiedono che io organizzi loro qualcosa, al limite anche una piccola uscita. “Una tantum” naturalmente dicono, perché ciascuno di loro nutre altri hobby, i propri, ed a questi, non rinunceranno mai. Su ciò niente da obiettare naturalmente, ci mancherebbe altro. Di loro cito per obblighi di privacy soltanto i nomi: Gaetano e M.Antonietta, Giuliano e Licia, Piero e Rita, Nino e Rita, Enrico ed Irene, Enzo, Nando ed Emma, Angelo e Bruna, Carmela e Carla, Anna, Riccardo e Mariella, Teresa, Rosanna e Mauro, Marzia e Marco, (io e Silvana) ed altri che non ricordo e spero mi scuseranno.
All’appuntamento si presentano con scarpe di camoscio, giacca, qualcuno con la cravatta; portano dietro piccoli zainetti variopinti con scritte infantili; si vede da un miglio che li hanno presi in prestito dai propri figli; mi guardano sottecchi, studiano il mio equipaggiamento tecnico, collaudato ormai nel corso degli anni. L’escursione riesce, forte la mia tensione per evitare qualche infortunio, ma tutti superano brillantemente le aspettative. La sera quando ci lasciamo, ricordo che li portai a Luni sul Mignone, un loro delegato mi incastra. Vogliono farne altre di quelle uscite... hanno assaporato il piacere dell’aria aperta, di come vivere serenamente una giornata, una domenica senza noia. Seguiranno poi tante altre passeggiate da allora, sempre tutte svolte con lo stesso entusiasmo, la stessa gioia, anche con condizioni meteo più avverse ed impervie. Acqua, neve, freddo polare, niente ci ferma, neanche discrete e difficoltose scalate montane di 2.000 metri.
Dimenticavo … a partire dalla seconda escursione, il gruppo ha avuto sempre più seguaci, l’abbigliamento poi … uno sbizzarrirsi continuo e forse anche più super adeguato delle esigenze. Quanto ai collaboratori! Corre l’obbligo, da parte mia, citare i più validi: Lino, Lorenzo, Piero, Angelo, Salvatore, Ercole, Alfio. E, in questi ultimi tempi, si sono aggiunti anche Antonio e Gualtiero. Grazie a loro dobbiamo questo sito su Internet, cosa che non sarei mai stato capace di affrontare. E ciò, per me, rappresenta un continuo stimolo a sempre fare, a portare avanti questa iniziativa, bando a tutti i guai del mondo, quelli che quotidianamente e comunemente ci affliggono.
Il Brigante Domenico Tiburzi, in arte Domenichino, nativo delle nostre parti (Pianiano di Cellere), era un profondo conoscitore dei nostri territori. Si muoveva con estrema destrezza da un paese all’altro, evitando di essere scorto e quindi segnalato alle autorità. Nessuno ha mai trovato sul terreno la traccia di un suo passaggio.
I suoi rifugi (ne ho localizzati tre) erano sempre situati vicini ai torrenti, lasciano capire che si muovesse, sempre a piedi, camminando sul greto degli stessi. (Cfr le grotte sui torrenti Timone e Paternale, la capanna a fianco di un fosso entro Monte Auto). Egli utilizzava probabilmente i fiumi come via di comunicazione.
Il brigantaggio di Tiburzi rappresentò la protesta brutale e selvaggia contro le secolari ingiustizie che colpivano la povera gente. Colpevole del brigantaggio di Tiburzi è soltanto la sua miseria e quella della propria famiglia. Domenichino è scoperto, da un guardiano, mentre sottrae un fascio di fieno, dai campi del Marchese Guglielmi. Ruba foraggio per la sua ciuca affamata cui “si contavano le ossa” da quanto era magra. A nulla valsero le giustificazioni addotte al guardiano: in fondo sottrarre una bracciata di fieno a chi ne possedeva migliaia di tonnellate non rappresentava poi un così grave danno. Ma, il destino inesorabile, aveva fatto incontrare un guardiano solerte ed un po’ cretino con un povero giovane spiantato, intelligente, genialoide senza scrupoli,. Da quel fatto ne nascerà una storia, Tiburzi la leggenda. Il giovane Tiburzi uccide spietatamente quell’irreprensibile guardiano, per evitare una denuncia, non prima di averlo supplicato, senza successo, di lasciar correre su quanto accaduto. “Domenichino” è costretto a prendere la via della macchia e vivere di brigantaggio. Da quel giorno, per lui, è una continua “escalation” criminale , una lunga ed onorata carriera da brigante. Parte dei suoi proventi saranno destinati alla povera gente, per costituire la dote alle figlie nubili di contadini nullatenenti e spiantati.
Passano per lui ben ventiquattro anni di latitanza costellati da numerose vittime della sua attività criminosa. Per Tiburzi il 24 fu un numero fatidico, oltre al numero degli anni di latitanza, egli fa fuori la sua prima vittima il 24 ottobre 1867, il guardiano del Marchese Guglielmi, Angelo del Bono. Il 24 ottobre 1896 conclude la sua esistenza terrena nel piazzale delle Forane ad opera di un carabiniere. Il 24 giugno 1900, nelle campagne di Manciano, viene fatto fuori il suo luogotenente, Luciano Fioravanti. Egli viveva di brigantaggio, taglieggiava i possidenti, ma uccideva soltanto se veniva tradito. Tanto che quando fu ucciso furono in molti a piangerlo.
I suoi dominii incontrastati sono: la Selva del Lamone, la macchia di Mont’Auto, la macchia di Palano, Ripa Maiale e la Farnesiana; il fiume Fiora, il Biedano e gli altri corsi d'acqua; tutti sono luoghi facenti parte delle nostre mete domenicali. Per quest’ultimo particolare decisi, a suo tempo, di intestare a lui il Gruppo.
Ma, devo dire, anche per una forte simpatia al personaggio derivata dal fatto che, pare, mia nonna Elena discendesse dal Brigante “Fra’ Diavolo”: forse è da questo che discende la mia famigliarita con la macchia, i fiumi, i luoghi aperti, insomma; Quest’ultimo brigante, dal comportamento quasi simile a Tiburzi, fu impiccato a Napoli l’11/11/1806, ad opera dei suoi eterni rivali nemici, i Francesi. Il “Monitore” Napoletano, l’indomani della sua esecuzione, pubblicò in prima pagina l’avviso seguente: “Sarà questa l’ultima volta che si parlerà di Fra’ Diavolo e resterà poi ricoperto di obbrobrio e seppellito in eterno oblio il nome di questo assassino”. Si sbagliava. Non ci fu oblio per il nome di Fra’ Diavolo. Dopo la morte, comincio la legenda!
Il Territorio delle ns Escursioni:
LA MUSICA E LA VOCE IN SOTTOFONDO E' DI MAURO CHECHI, PER LE QUALI CI HA GENTILMENTE CONCESSO LA RIPRODUZIONE. ALTRE SUE OPERE SONO CONSULTABILI AL SITO: www.maurochechi.it.
IL DISEGNO DEL TERRITORIO E' CREAZIONE DI NILDE VERDE, UNA NS TIBURZIANA.