Come ogni anno, da qualche tempo in quà, il Gruppo è solito chiudere l'annata con un giro "fuori Porta", ovvero al di fuori del ns "territorio" abituale. Nell’annata escursionistica 2006/2007 avevo programmato 3 giorni elbani: la risalita del Monte Capanne, la vista mozzafiato dell’isola dall’alto delle rocce in un punto ove si scorge tutta la sua bellezza, la sua “siluette” direi, e la multicolore fioritura maggiolina montana di un clima marino mediterraneo.
Ma talvolta rinunciare ad un “paradiso terrestre”, non significa proprio precipitare all’inferno, Castelluccio, Polino e Spoleto, non mi hanno fatto rimpiangere la meta che mi ero prefisso. Certo le due proposizioni sono cose completamente diverse e purtroppo l’uscita all’Elba si sarebbe fatta più sentire sui singoli bilanci familiari.
Per ciò che concerne i nostri tre giorni umbri ritengo utile trascrivere, perché emblematico, di sana pianta un mio articolo che venne pubblicato su un Bollettino del Cral della Cassa di Risparmio di Civitavecchia nel maggio 2003 e relativo a mie precedenti uscite sui PIANI DI CASTELLUCCIO, concluderò con un articolo “fresco” su POLINO. Luogo che tanti di noi non ne conoscevano neppure l’esistenza.
LA VERA PRIMAVERA DI CASTELLUCCIO
Romit…e memorie)
I Piani di Castelluccio – lontanissime rimenbranze
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La prima volta che ebbi l’opportunità di passare i Piani di Castelluccio, fu almeno trent’anni fa. Giunto sul posto mi accorsi subito del fascino della particolare magia che sprigionava lo scenario del piano in tutto il suo insieme. Era una sporadica occasione di uscita “fuori porta” tra amici, per giunta “senza spese” eccessive per dirla alla nostra maniera bancaria.
Ricordo ancora quando Basconi, con un certo ammiccamento, ebbe un giorno la splendida idea di invitare, per un fine settimana, da trascorrere nella sua casa di Ancarano (Norcia) i colleghi/amici Scussel (1), Guida, Tisselli (1), Cracolici (1), Zinchiri, Romiti (1) ed altri che ora non mi sovvengono. Tutti accettammo l’invito di buon grado “lasciando inconsolate” a casa mogli, fidanzate ed altro.
La domenica poi, dopo aver passato un sabato indescrivibile, ci svegliammo presto e con nostro immenso piacere ci accorgemmo che un metro di neve e passa non consentiva più di aprire l’uscio di casa. Noi, gente di mare, dovemmo sbrigarcela da soli e né fu possibile contattare la nostra vicina di casa Ester, unica nostra musa, per farci sgomberare dall’esterno l’uscio dalla neve. La donna, preparata a quegli inconvenienti, ci avrebbe aiutato di certo volentieri, avendo poi al nostro arrivo subito “messo” gli occhi su qualcuno di noi. Comunque ce la cavammo e più tardi ci muovemmo dal paese, verso i monti, con le nostre vetture anche senza “catene”. Le centoventotto, le seicento, qualcuno però aveva anche una “Fulvia”, percorsero con difficoltà le strade ghiacciate, belle, tortuose e scoscese che congiungono Norcia ai Piani di Castelluccio. Ma noi eravamo fermamente decisi di portare in omaggio alle nostre mogli le famose lenticchie.
Ma appena “scollinammo” Forche Canapine capimmo subito che era il caso di mandare al diavolo i legumi di Castelluccio. Tutti i piani (80 chilometri quadrati!) erano ricoperti da una coltre di neve, immensa, elevata, inaccessibile.
Di lontano, che pur giace su una collina sovrastante l’altipiano, appena si ergeva Castelluccio. I rintocchi del piccolo campanile del paese facevano capire che qualcuno era là, isolato dal resto del mondo a consumare le proprie scorte chissà per quanti altri giorni ancora, finché non fosse arrivata la protezione civile. Era forse quello scampanio a distesa una richiesta di soccorso?
Dietro Castelluccio e poco più distante la catena dei Sibillini, con le sue incombenti cime del Redentore, bianche come un ghiacciaio, fungevano da quinte ad un paesaggio irreale, irraggiungibile e magico, a cui toponimi di località quali il “Pian Perduto”la Grotta della Sibilla, le Gole dell’Infernaccio, conferivano maggior mistero. Ma un forte e gelido vento di bora riportava immediatamente il pensiero alla realtà e faceva presagire che era ora di tornare e che la partita meteorologica non si era ancora conclusa.
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Dunque, passati tanti anni da quel lontano millenovecentosettanta, mi ritrovo un bel giorno di giugno dello scorso anno, con altri amici a ripercorrere quelle contrade. Il territorio fortunosamente, grazie a qualche saggia politica, è rimasto intatto. Ester (Estere), vive ancora ma ormai è una vecchietta. Mi riconosce, si ricorda di noi, inspiegabilmente in quel paradiso terrestre soffre un forte esaurimento nervoso.
Ripercorro anche Forche Canapine e tutti i Piani mi appaiono nel loro splendore primaverile: un’esplosione di colori – dal rosso dei papaveri al bianco dei narcisi, dall’azzurro dei fiordalisi al giallo della soia ed al bianco della lens esculenta (lenticchia) - ha trasformato il paesaggio in una tavolozza variopinta, uno spettacolo indimenticabile. Inopinatamente assisto ad una stupenda manifestazione naturale che si rinnova ogni anno in un ristretto ed imprevedibile lasso di tempo.
FOTO DI R. MASSARELLI Il paesaggio è bello come trent’anni fa, anche se i ricordi sono sempre più rosei della realtà e per qualche attimo un susseguirsi di immagini del precedente viaggio mi tornano in mente e rivedo la scena dell’acquisto dei buoni biscotti dalle Monache di clausura di Norcia che le religiose vendevano veicolandoli – non potendo mostrare in pubblico il loro viso - attraverso la ruota di legno degli innocenti, posta all’ingresso del Monastero. E quando il marchingegno, tra vari cigolii, compiva un giro completo, il danaro veniva introitato ed estromettessi i caldi e profumati dolcetti, una sorta di POS “ante litteram”.
Ricordo la miracolosa pesca di trote, a pagamento, nel fiume Nera che finirono quasi tutte nel carniere di Basconi, a sua insaputa, dopo che sapemmo quanto costavano al chilo. Conoscerà ora, finalmente, il motivo della sua pesca miracolosa! E la mia idea di proporre la costruzione di un maialodotto vivente “Norcia-Ancarano” per la fornitura diretta di suini nel caso di impercorribilità stradale.
Ed ancora la lunga partita a scala quaranta, da me vinta e che raccolse nel mio portafoglio quasi tutte le finanze del gruppo, ed il metro quadro di costarelle che scomparvero dalla comune dispensa e che uno di noi se le ritrovò, a casa, involontariamente nel proprio zaino. Poi la colazione fatta con pezzi di salsiccia immersi nelle tazze ricolme di vino, non potendo, causa neve, andare al bar a prendere un caffè, e la conseguente comune epidemia di colite ventosa.
E per ultimo, non perché meno bello, ma forse più emblematico della nostra gaia e spensierata giovinezza, c’è il ricordo di Guida, che rimasto senza letto, perché attardato, unanimemente posto, dopo ampia e dibattuta discussione, su un grande tappeto persiano, poco impolverato, e “fatto su”, arrotolato, la cui testa usciva da un capo ed i piedi dall’altro. Così conciato, senza fare alcuna obiezione, venne sistemato per la notte, per terra, nel vano antibagno, tranquillamente rimosso al manifestarsi di notturne necessità. Ma lui riuscì ugualmente a dormire.
alla nota surriportata ritengo aggiungere soltanto due miei racconti e le confidenze di uno scalatore del CAI di Perugia, che incontrai in occasione di una scalata del Monte Patino dalla parte di Ancarano con discesa sui Piani di Castelluccio, con prosecuzione fino a Forca Canapine, qualcosa come 28 chilometri in sei ore, in compagnia di Nando Zinchiri e Sagnotti Franco, nella speranza che qualcuno raccolga e tramandi questi miei ricordi.
1°.........
<<… eravamo finalmente intenti a percorrere una lunga discesa, dopo aver faticosamente posto un piede innanzi l’altro nell’affrontare l’impossibile diretta dei 300 metri del Patino e raggiunta la mèta.
A Forca di Giuda, sul ritorno, i segnali del CAI posti su consunti cartelli di legno indicavano più o meno chiaramente: Castelluccio, Monte Ventosola, Rifugio Perugia e Citta d’Ascoli, Monte Lieto-Pian Conteso, Val Canetra e Val di Rose. I miei amici avevano ancora birra nelle gambe quindi decidemmo di osare ancora oltre. Bisognava soltanto ora scegliere di quale morte morire. E toccò a me decidere avendo, come spudoratamente entrambi affermarono, già studiato le carte. Eravamo partiti quasi indecisi se scalare il Patino, che è già tanto e poi troppo frettolosamente pensato di allungare un pochino … perché ancora carichi … in forze…Si ma di quanto avremmo allungato neppure io lo sapevo, pur avendo dato uno sguardo alle carte.
Decisi allora di ripiegare su Castelluccio, pensando anche ad eventuali scherzi da “prete” che alcuni “ingenuamente” fanno, girando la direzione dei cartelli…, per aiutare i trekkisti. Camminammo a lungo, per lo meno per un paio d’ore su una carrareccia, ad un passo molto lungo che stimai in 6 /7 chilometri orari, senza vedere nulla, persone od altri cartelli, ed ora il sole allo zenith asciugò provvidenzialmente i nostri panni e rifocillò le nostre ossa. Ampi scenari avanti a noi ma di Castelluccio nemmeno l’ombra, finchè in basso ci apparve un immenso e bianco mare racchiuso a sinistra da un anfiteatro di monti. E’ la catena del Vettore, pensai, e sotto tutto il Pian Grande, invisibile, coperto da un immenso pack nebbioso. Però del campanile di Castelluccio nemmeno l’ombra, quindi nessuna conferma di aver imboccato la giusta direzione, eppure marciavamo verso sud sud-est come la logica imponeva. Finché si cominciò a scorgere, sulla sinistra della pianura nebbiosa, una piccola ombra, che man mano si fece più intensa e definita. Era il campanile di Castelluccio, ed in breve si cominciò a vedere il paese ed il piano, erano distanti, ma quasi a passo di marcia sportiva giungemmo nei pressi.
E’ qui che incontrammo due ragazze in abiti succinti, con bacchette che salivano a passo spedito. Il nostro fu subito un cordiale saluto cui non ricordo se risposero. Dietro di loro veniva un ragazzo, il quale al contrario, fu molto cordiale ed esplicativo. Era di Perugia, iscritto al locale Cai. Quel giorno avrebbe percorso, con le due ragazze, l’anello che cinge “Pian perduto”. Si accorse subito del mio interesse per quei posti mentre divoravo con gli occhi il bel Vettore, il Monte della Priora. Nel parlare chiesi poi il significato locale di forca. Mi raccontò la bella storia degli umbri che salivano il Vettore per motivi ascetici, recandosi a visitare la Sibilla nella sua grotta. Al loro ritorno alcuni di loro, se presi dai gendarmi papalini, venivano appesi a forche perché sacrileghi, da lì l’attribuzione del termine forca ad un passo montano ove obbligatamente si era costretti a passare e si veniva catturati. Mi raccontò ancora della storia del Pian Perduto, conteso da Vissani e Norcini. Questi ultimi in 6.000, furono sopraffatti da 600 Vissani. C’è persino chi ha sostenuto che la vittoria di Visso, più che al valore combattivo, si deve attribuire ad un’astuzia strategica delle donne gualdesi che, secondo la tradizione, si sarebbero offerte ai combattenti nursini per farli accerchiare. Questo accadeva nel lontano 1522. >>
2° ..................... .......................
<< Ci salutammo senza più incontrarci, noi proseguimmo per Castelluccio ove ebbi l’occasione di conoscere Caterina dell’Agriturismo “Guerrin Meschino” e di organizzare vari pranzetti a base di zuppa di lenticchie, come quello che ci ha visto tutti insieme questo 26 Maggio.
Proprio
lì
da Caterina ebbi l’opportunità di incontrare una
lupa con la
quale stabilìi un amore a prima vista. Seppi che era una
lupa
selvatica che si era avvicinata al paese da poco. Quando ripartimmo
venne al seguito. (Vedi Antonio anche tra una lupa ed un
cinghiale
può sorgere l’amore…).
In Castelluccio intendevamo prendere il pulmann di linea per raggiungere Norcia dove avremmo intercettato le nostre Signore, Emma, Silvana ed Anna, intente a fare shopping. Il pulmann di linea, però, accertammo con gioia che partiva solo il giovedì e la domenica e noi eravamo a lunedì. Intercettiamo con il telefonino le nostre signore che si dicono disposte a recuperarci non prima di aver scaricato la spesa ad Ancarano (20 chilometri da Norcia) da dove eravamo partiti e lasciata l’auto (per l’esattezza a Forche d’Ancarano).
Ci avviamo a piedi entro il Pian Grande, verso Forca Canapine. Frattanto sul Vettore si era addensata un’enorme nuvola di colore plumbeo, e già cominciava a scaricare la sua immensa portata di fulmini, seguiti da tuoni che rimbombavano fragorosamente entro la valle. Qualcuno di noi sussurrò “senti il nonno che va in carrozza”. Cercammo di allungare il passo per distanziare il Vettore con il suo incombente carico pluviale.
Giunti in mezzo al Pian Grande, sulla destra in lontananza si intravedeva un immenso gregge di pecore, ma si vedevano cosi piccole da sembrare dei puntini bianchi nell’infinito verde del piano. Dal branco si distaccarono una decina di cani pastori maremmani che presero la nostra direzione abbaiando rabbiosamente. Ma erano così lontani e noi cercavamo intanto di guadagnare strada, finché giunsero ad una distanza di circa un chilometro da noi, continuando la loro corsa.
La lupa di cui sopra cominciò a ringhiare contro i suoi eterni nemici. Fu così che presi la decisione di attaccare il branco, prima di essere attaccato. Munito di un bastone notevole lasciai la strada e mi diressi spedito verso di essi. La lupa subito venne al seguito. Stavamo avvicinandoci velocemente al fronte, quando mi misi a correre verso i cani urlando ed agitando il bastone, la lupa anch’essa al mio seguito ululando, disposta al combattimento impari. Finché miracolosamente i cani si bloccarono e cominciarono a tornare indietro con la coda tra le gambe. Fu in questo momento che la lupa prese più coraggio, voleva inseguirli a tutti i costi chissà fin dove. La richiamai verso di me, che lo fece tra guaiti vari di disappunto.
Tornati sulla strada cominciava a schizzettare lievemente ed il cielo del piano, ora quasi tutto coperto, si era fatto cupo. Dalle nostre donne neppure un segnale. Continuammo la nostra marcia quasi a scollinare il piano, finalmente riconosciamo da lontano la navetta recupero. Decidiamo di dare le nostre merende alla lupa, che con due morsi le fa fuori tutte, convinti che il suo scopo fosse soltanto quello. Niente affatto, non termina neppure il suo pasto e insegue la macchina per vari chilometri, finché ne perdo la vista raggiunti i tornanti di discesa.
Peccato, poteva essere una delle prime belle coppie di fatto della storia. In seguito seppì che dette alla luce 13 lupini (forse sta meglio “lupetti”) che però avevano preso tutto dalla madre ed a me non somigliavano affatto! Poco dopo morì ed io rimasi a piangere inconsolato, nel dolore. >>
La Pelosa, e chi l’ha mai vista? Dicono che è’ molto timida e vergognosa, e per via di quel suo difetto porta pantaloni lunghi fino alle scarpe, camicie a manica lunga fin sui polsi e guanti. Si nasconde il volto con le mani, all’arrivo degli scalatori, ma i suoi baffi comunque sporgono sempre ai lati del viso…
E’ sempre molto interessante conoscere l’origine dei toponimi, poiché in essi è sempre nascosto un pezzetto di storia e, in altri casi, tanta buona cultura popolare che tramanda fatti del tempo che fu, altrimenti destinati a sopravvivere poco più dell’arco di tempo intercorrente tra una generazione e l’altra, fagocitati da una sorta di involontaria “damnatio memoriae” popolare.
Sì ma quella montagna purtroppo non è detta “la Pelosa” per quelle mie allusioni, ma per via della bassa vegetazione che a guisa di pelo cresce sulla vetta, e non altro!
Eravamo ormai giunti ad un centinaio di metri dalla Croce, una colossale e discutibile croce in acciaio che definiva il crinale del Monte (1637 mt), restava ora soltanto la risalita, una vera e propria “groppa d’asino” da cui appena sporgeva un disco solare accecante. Ma i respiri di Silvana e Bruna mi consigliarono ora di procedere a zig – zag, per l’ultimo centinaio di metri rimasti, guadagnando quota poco alla volta. Avevamo lasciato l’auto a Poggio Bertone, dopo esserci dissetati lungamente alla meravigliosa fonte prossima all’Hotel Don Bosco.
Eravamo giunti a Polino perché Angelo, ormai assiduo frequentatore delle passeggiate del neo Tiburzi-trekking, mi aveva un giorno quasi sussurrato con enfasi la bellezze di questi Monti, già visitati, con le proprie figlie, in occasione di campeggi estivi. Scelsi il periodo di fine maggio, tra i vari miei impegni di lavoro ed il termine delle escursioni del Gruppo e finalmente partimmo. Giunti in Hotel avevamo parlato, la sera prima, di questa risalita con Alfonso, per avere alcune indicazioni. L’uomo ci descrisse con estrema semplicità il percorso ed i luoghi che avremmo dovuto incontrare. Ma tra il dire ed il fare, si sa, c’è di mezzo il ... Monte. Angelo mi guardava con aria convinta durante la descrizione della risalita fatta da Alfonso, annuendo continuamente tanto che alla fine mi disse “fai tu….” (anzi disse per l’esattezza “ a Ivà fae tu, tu lo sae come se fanno ‘ste cose”).
Infatti di buona mattina, da Poggio Bertone, iniziammo la risalita per la sterrata che sale su nel bosco e poi su, su, percorrendo un terreno scoperto fino ad aggirare un colle secondario. Superato il fosso Crepafosso avevamo percorso la strada fino al suo termine, compiendo un ampio giro fino a scorgere il versante nord-est della valle attorno al Monte, in direzione Monteleone, e trovarci appunto sotto l’appettata finale. Dopo aver descritto lunghi e vari tornanti, toccando il perimetro alberato del monte, ora a destra ed ora a sinistra, ci trovammo finalmente di fronte alla croce in acciaio, donata dagli operai delle acciaierie di Terni. In posa per due foto, per la cronaca, e poi un sguardo tutto intorno. Della Pelosa però nessuna traccia, forse si sarà nascosta, però quanto a panorama “sta montagna” non aveva nulla a che invidiare ad altre anche più alte ed importanti di Lei. Da lì sopra appaiono le vette del Terminillo e del Monte di Cambio, il panorama poi si allarga verso gran parte dell’Appennino centrale, i monti di Spoleto e della Valnerina, I Monti della Laga, i Sibillini ed il Gran Sasso. Altro particolare, indicato da Alfonso, è che nei giorni di tramontana lo sguardo spazia fino ad arrivare ai Monti della Tolfa verso sud-ovest ed alla cupola di S.Pietro verso sud. Questo mille e seicentotrentasette metri si è rivelato un vero balcone sull’Italia centrale.
Dopo una breve sosta per consumare il cestino da viaggio amorevolmente preparatoci da Serena del Don Bosco, facciamo un ritorno veloce presso l’Hotel. L’escursione, anche se non preparata nei sentieri e nei suoi particolari, è risultata abbastanza facile dal punto di vista orientativo. Quando si tratta di raggiungere la cima di un monte, semmai difficile è la scelta del percorso di ascesa, ma se la vetta di destinazione risulta a “vista” , la meta è abbastanza semplice.
Nell’anno 2004, con il “Tiburzi”, riaffrontai di nuovo ‘sta Pelosa, ormai convinto di ritrovare la cima del monte con la classica vegetazione floreale alpina e di colpire quel panorama a 360 gradi già a me noto. Avevano aderito all’iniziativa “fuori porta” circa 50 persone e buona, parte di esse, estranee al Gruppo, attratte dall’ottimo coefficiente qualità/prezzo. Della risalita del Monte, anche se tirava una brutta aria quel giorno, non mi posi alcun problema, mentre proprio da questa mi piombarono addosso vari grattacapi. La notte infatti avevo sentito, molto intensamente, battere la pioggia sulla finestra di camera e non pensavo che…
L’indomani mattina, partiti di buon ora, giungemmo, per l’esattezza, agevolmente fino alle pendici del Monte ove, con nostro immenso piacere cominciammo a trovare della neve al margine dei percorsi, per questo modificai radicalmente la risalita dell’ultimo tratto. Puntai decisamente verso sud, per un sentiero che si inoltrava obliquamente entro una bellissima vegetazione di faggi. Usciti da questa, sul pulito tutto innevato, in direzione del Terminillo, ci trovammo di fronte le pendici meridionali del Monte. Qui le coste erano più lunghe ma meno impervie di quelle nord usualmente utilizzate per la risalita. Ma qui cascò l’asino! Iniziarono dapprima a scendere meravigliosi fiocchi di neve, accolti da unanimi gridi di gioia. Poi, man mano che risalivamo, la precipitazione nevosa si intensificò al punto che la visibilità non era oltre i trenta/quaranta metri. Le nostre calzature affondavano nella profonda coltre ed aumentava il disagio fisico, la respirazione si faceva più intensa ed affannosa. Il “Tiburzi”, guardando a ritroso, sembrava un lombricone dinoccolato che partendo dalla testa - ove mi ero imposto per evitare i rischi di pericolose involontarie deviazioni di alcuni, amanti delle prime posizioni - fino al termine, descriveva una lunga “esse”. La spedizione ora non sembrava più tanto lieta, rassomigliava piuttosto ad un esodo di popolazioni slave tra i Carpazi innevati.
Compresi subito i rischi che stavamo correndo che, per fortuna mia, non furono recepiti dal resto del Gruppo. Loro erano tutti lì a seguirmi, ignari che la scarsa visibilità non consentiva di tracciare una rotta precisa e di leggere il percorso. Avevo ridotto l’andatura ad un passo di montagna, tenevo Lino serrato dietro di me, Angelo “la scopa”, come al solito, seguiva dall’ultimo posto. Finalmente scollinammo, ma della croce nemmeno la puzza. La visibilità ora si era ulteriormente ridotta, e così la luce. Era tormenta piena!
Non riuscendo più a collocare la fine del Gruppo, raccomandai, col “passa parola” di procedere serrati, a passo di processionaria. Finché un fulmine e contestuale tuono non ci piombarono addosso, lasciando intravedere con il bagliore, finalmente, la croce perché colpita dalla scarica. Una imprecisabile quantità di pericolosi chilowatt riversatisi a terra proprio ad un passo da noi. Allora mi arrestai, serrando tutto il gruppo, verificando così che ci fossero tutti e che il fulmine e poi i successivi, ormai ad intermittenza ravvicinata, non avessero fumato o trasformato in puffetto di carbone qualcuno di noi. Tutti presenti, ma precipitai comunque nello sconforto nel guardare le loro facce, i loro indumenti e le calzature di alcuni. C’era infatti chi ci aveva seguito con i mocassini (ma non era gente del Tiburzi) che avevano cambiato colore, spessore della pelle e del cuoio e si erano tanto allentati, proprio pronti a scindersi in tomaia e suole. C’era chi aveva trasformato buste della spesa in coloriti K.way, cappelli o mutandoni. Ah .. l’infinito genio italiano! Pendevano, poi vari ghiaccioli, dalla barba o baffi di alcuni. In quell’attimo mi balenarono alla mente le immagini di Compagnoni e Lacedelli, riprese sul K2 del Karakorum (anno 1954) 8611 metri.
Eppure, tutti piuttosto allegri, cominciarono a fotografarsi reciprocamente. Pensai io, che quelle foto potevano risultare utili per corredare la pietra dell’ultima dimora…
Ripartii velocemente per allontanare il
Tiburzi il
più possibile dal punto focale della perturbazione. Imboccai
la
discesa tra gli alberi, più dolce, e non la diretta, che ci
avrebbe trasformato in involontari slalomisti. Ma giunto nei pressi del
laghetto artificiale mi accorgo voltandomi, con mio grande sconforto,
che eravamo rimasti in tre, io Lino Milo e Salvatore Rotondo. Lascio
loro due sui margini del lago, pregandoli di non muoversi
assolutamente, torno immediatamente sui miei passi fischiando alla
“pecorara” richiamando disperatamente
l’attenzione
degli altri. Ma i miei segnali si smorzavano velocemente tra
l’aria ovattata della tormenta e la scarsa luce che filtrava
tra
gli alberi, finché ne comincio a trovare uno due, tre,
quattro
ed altri. Ricordo che c’era una signora in particolare che
gridava: “Alfio
…Alfiooo…..Alfiooooo…
aiutami sono già scivolata due volte e se non fosse stato
per
Sansone … chissà dove sarei finita”.
Alfio, il marito, era lì
vicino, interdetto,
tanto che non rispose quasi subito, ma, soltanto dopo aver tirato il
fiato, telegraficamente e con una sola emissione vocale
bofonchiò: “tu due ..io invece sono
già caduto almeno tre volte e da solo”.
In seguito pensammo che Sansone stesse per Ercole.
Alla fine però li ritrovo
quasi tutti, mancavano
all’appello soltanto due, Maria Luisa ed Angelo. Raggruppo
questi
reduci e li blocco in quel punto. Risalgo ancora il monte, velocemente,
alla ricerca degli ultimi, che dopo svariate grida e percorsi a zig zag
per allargare l’orizzonte di risalita, li intercetto per
trarre
finalmente un lungo sospiro di sollievo. I due erano più o
meno
ben orientati sul sentiero ma Angelo, lui sempre intento a controllare
gli ultimi del gruppo, aveva legato Maria Luisa, dopo esser caduta
innumerevoli volte, con una briglia alla vita facendola scivolare
dolcemente giù per i pendii.
Ricompatto finalmente tutti! Scendiamo
di quota,
forse 1450 mt, ove si presenta una giornata decisamente ben diversa da
quella che si stava consumando sulla Pelosa. Giunti all’Hotel
rivediamo perfino il sole. Ritroviamo alcuni nelle sale del Don Bosco,
che fortunatamente avevano deciso di non seguirci
nell’impresa,
mentre stavano pranzando, con abiti civili, ci sediamo al tavolo con
loro e ci facciamo servire il pranzo pure noi. Fumanti ciriole ai
funghi porcini, bistecche di vitellone, insalata, tanto vino rosso,
frutta acqua e caffè. Dimenticavo, durante il pranzo,
alzando il
calice di vino per un brindisi, per lo scampato pericolo, commenti
unanimi mi fecero capire che per loro, quella escursione, era stata la
più bella che avessero mai fatto, fin d’ora, in
senso
assoluto. Annuisco ed aggiungo “de gustibus non est
disputandum” è esatto il mio
“latinorum”, Antonio?
Ogni volta che passo sotto il lungo ed enorme ponte di cemento, sulla strada che collega Polino ad Arrone, situato pressappoco nel canalone di Valle Ludria, penso sempre a quei due giovani ragazzi, Galletti Alberto ed Accorrà Tiziana, che gettandosi legati ad un elastico (jumping), mal vincolati all’imbragatura di lancio, hanno perduto la vita schiantandosi al suolo. E proprio sotto il ponte, ove tanto amorevolmente qualcuno ha fatto costruire un’edicola a ricordo, la mia vettura si blocca per un istintivo riflesso del suo sistema frenante.
Risalire la Pelosa mi fa rivivere sempre nuove ed emozionanti sensazioni. Vuoi perché incontro scenari sempre diversi, vuoi perché Polino e dintorni vengono programmati ogni due anni e passa, e poi il gruppo, nel tempo, parzialmente si rinnova.
Quest’anno siamo soltanto 22 in Hotel, per l’esattezza 18 soltanto di noi parteciperanno alla risalita della Pelosa. Qualcuno insinua che 18 è il numero ideale per scalare il monte, sarà perché si forma un gruppo compatto e tutti possono ascoltare le indicazioni che vengono fornite o sarà anche perché conta una unità maggiore del suo malfamato predecessore. Ed io, a scanso di equivoci, di un prurito in meno ne prendo atto!
Partiti dal solito Colle Bertone percorriamo il sentiero montano le cui sponde ci riservano una magnifica sorpresa: una fioritura multicolore, ma a stento riusciamo ad identificare qualche specie delle infiorescenze tra quelle svariate che ci appaiono. I colori sono molto belli ed intensi e vari, il bosco sfoggia una livrea così verde, colore che richiama alla realtà Umbra. Man mano che risaliamo, sempre anticipati dal nostro Lino, scorgiamo un panorama sempre più ampio. Lo sguardo spazia fino alla piana di Reate ed al precipizio della cascata delle Marmore. Siamo quindi presi da questo magico scenario, ma entro un sentiero che porta alla pendici meridionali della Pelosa, una sorprendente qualità di fiori blocca tutto il gruppo. Sembrano tulipani, il loro colore vira dal ciclamino al “lacca garanza”, la loro forma è a bocciolo campanulato, di grossa dimensione. All’interno dei petali i pistilli sfoggiano un color giallo intenso. Nascono molto numerosi sui clivi, il loro arbusto è alto circa 40-50 cm. Non possiamo assolutamente coglierli per mostrarli in paese per farci dire a quale specie appartengano, però li fotografiamo. Nilde afferma trattarsi di peonie. Di ritorno, a Civitavecchia, accerto che aveva ragione lei.
Anzi per assecondarci l’anima di Linneo e colmare la nostra (scarsa) conoscenza botanica raccolgo e scannerizzo su varie enciclopedie che posseggo (e mai viste) le immagini della maggior parte delle infiorescenze appenniniche, nella speranza che “Ace” ce le riporti quanto prima sul sito tiburziano per colmare il nostro immenso gap scientifico. Proseguiamo la risalita fin quando giungiamo sul pulito che dal limitare del bosco giunge tutto intorno fino alla Pelosa. Raccomando la già sperimentata risalita a zig – zag, mentre due di noi partono, decisi a raggiungere per primi la meta. Li seguo con gli occhi, mentre cerco di confortare gli altri con un passo lento e cadenzato. Non ricordo quante volte abbiamo intersecato la risalita del monte, ora a destra ed ora a sinistra, frattanto che avanti a noi si stava consumando un arduo inseguimento. Antonio, forte delle sue condizioni di “palestrato”, aveva puntato la sua rotta direttamente sul “cacumen” della Pelosa. Scelta dura la sua ma che in breve lo porta a raggiungere i due fuggitivi, Lino e Salvatore. I due però, conoscono il percorso, si lasciano sorpassare da Antonio accortisi della direzione presa. Il prode Ace non sa che lui sta risalendo il monte gemello della Pelosa, ad essa affiancato, più basso di poco e fornito anch’esso di croce. Mentre loro, i due, puntando su una diagonale che passa la sella, tra le due vette, tirano diritto sorprendendo furtivamente e con inganno il rivale. Raggiungeranno in breve, per primi, la gran croce. Man mano però giungiamo un po’ tutti, dietro a me Emma e Sandra. Emma gli ultimi cento metri, abbassa la testa, scatta e conquista la classe d’onore della serie cadetta.
In maglia nera Patrizia ed Angelo, ma lui “la scopa” (come ormai da tutti è definito), deve tenere l’ultima posizione: per questioni di incarico all’interno del Gruppo, é quindi relegato in fondo per controllo. Al termine però onori per tutti. Foto ricordo con vista sul medio appennino. L’aria troppo umida non consente di spaziare con lo sguardo oltre i 40 chilometri c.a., ma ugualmente il panorama si presenta bello.
Ritorno tranquillo e cadenzato. Io rivolgo un caloroso arrivederci alla Pelosa, ormai divenuta mia parente stretta, nella speranza di ritornarci e riportare tutti i presenti ed altri.