RESOCONTO AUTENTICO DELLA RISALITA: 4 sETTEMBRE
Ore 9.00 c.a. si parte. Il nome del luogo “Marcia-na”, preluderà all’intenso impegno che attende i cinque argonauti del Tiburzi, in viaggio verso l’alto sperone di granito che svetta elevato e tutto sovrasta?
L’ascesa è pesante, parola di esperto! E’ un semplice 1.000 metri e, secondo la Scala Alpinistica di Monaco, classificato entro il primo grado. Una risalita dal sapore alpinistico quindi, gli scettici si toglieranno sicuramente la sete con il prosciutto e poi bisogna pur tener conto a che andatura si affronta il Capanne. La scala tecnica del C.A.I. testualmente recita: “”non è necessario legarsi in cordata. Si incontrano passaggi che esigono l'uso delle mani per procedere, gli appigli e gli appoggi sono abbondanti e comodi e non impegnano eccessivamente. Tipici esempi di primo grado sono la salita alla Grigna meridionale per il Canalone Porta, la normale della Presolana, le vie che portano alle più alte vette delle Dolomiti””.
Partiamo! Scalinate e stretti vicoli del Borgo, lastricati di granito del monte, ci accompagnano nella marcia di avvicinamento, che iniziamo così, lentamente, per dar tempo ai neofiti fotoreporter di immortalare gli angoli pià belli del luogo. Ma presto penetriamo entro un fitto bosco dagli alberi immensi, antichi, sono castagni secolari, forse fatti piantare per volontà di Napoleone durante il suo soggiorno dorato. Un grazioso sentiero serpeggia tra tornanti, alberi e ruscelletti, ora in secca, che trasportano l’acqua giù verso il regno marino che blu turchese strizza l’occhiolino di lontano. Armonici ponticelli in legno abilmente superano le anse dei torrenti. Ora la temperatura dell’aria, mitigata al punto giusto dal fresco di ombre millenarie, invita a lasciarsi andare ma tradisce, lo scotto del sole come la spada di Damocle, ci attende nella risalita oltre i 500 metri di quota quando le colture ad alto fusto faranno largo alla bassa e stenta vegetazione montana: geniste salzmannii, cisti, lavande, stenti arbusti incurvati alle rocce.
Presto, dopo dolci e piacevoli tornanti, intercettiamo la “gabbiovia” Marciana-Capanne, che nel sacro silenzio del bosco, sorvola dolcemente le cime elevate degli alberi. La grotta di San Cerbone è nei pressi e poco dopo l’antico Romitorio che ormai è prossimo ai duemila anni. Si racconta che il Santo, per sfuggire alle ire di Gummarith, duca dei Longobardi, qui si rifugiò (sesto secolo d.C.). Il santuario esisteva già nel terzo secolo d.C. e, presumibilmente ricavato su ruderi di un più antico tempio etrusco. Posto in luogo ameno, sprizza sacralità, serenità, tranquillità e riposa lo sguardo tutt’intorno. E’ un invito alla meditazione, allo yoga, al pasto mentale.
Qui sopraggiunge un’orda dalla terra d’Albiòn. Sono una cinquantina, inquadrati. Quasi tutte donne. Un’abile guida, elbana, li gestisce entro i meandri del folto bosco. Partiti da Poggio raggiungono Marciana e si divertono a guardarci, in particolare una di queste trova buffe le mie racchette da trek, con lo sguardo ed i gesti mi chiede: “dove troverai la neve?”. Meriterebbe una risposta a tono …. ma desisto! Per loro siamo parte coreografica e folkloristica del tutto!
Quell’inglese é’ più giovane di me, ne osservo le sgraziate forme, le gambe elefantiache, orlate da profonde varici, accordate con un grosso ventre ben sorretto da abbondanti glutei, seno calato che trova sostegno sullo stomaco prominente, abbondante. Il sesso, gonfio, evidente, pesantemente prolassato, preme le forme sui pantaloncini di stoffa sciattata e sformata.
Riprendiamo il sentiero di risalita dal San Cerbone, ove convergono vari tratturi. Qui dobbiamo proseguire seguendo le curve di livello, rotta nord-ovest, ove di tanto in tanto si aprono scenari e scorci panoramici di grande effetto. La risalita dalla pendenza a due cifre, impegna oltremodo le nostre lunghe leve, ed ora il sentiero è una ripida e diritta scalinata di gradoni granitici che non ci lascerà più fin sotto le alte pendici del Capanne. Alcuni tratti sconnessi, sotto il nostro peso, fanno oscillare i pesanti lastroni con suoni cupi e metallici.
La risalita non concede tregua senza riservare vie alternative, occorre arrivare fin lassù ed intercettare il sentiero proveniente da Pedalta. Proseguiamo ancora per un centinaio metri, girando a sinistra, per l’incrocio sentieri 1, 2 di fronte al caprile. Qui tiriamo un po’ il fiato con il pretesto di qualche foto, un po’ di urina, uno spuntino, acqua e tentare il difficile reintegro dei liquidi. Il “cacumen” sembra continuamente girare su sé stesso, fissarci gli occhi, da qualsiasi punto si osservi, molto simile agli illusori effetti visivi di un’icona sacra.
Frattanto sopraggiungono due ragazzi da Monte Perone, sono toscani di Castellazzara. Lei “guida” di professione, bellina, molto decisa e determinata, fa eco l’uomo, giovane dal fisico asciutto e possente chiaramente palestrato. Scambiano quattro parole con noi per ripartire subito. Ma noi ci incolliamo dietro, il ritmo dei due è troppo sostenuto, non è passo da montagna, il battito cardiaco sale notevolmente e loro, pur poco più che ventenni, non potranno mantenere quell’andatura! Infatti non passano cento metri che cedono e si fermano di colpo.
La meta pur apparentemente a portata di mano, sfugge continuamente alla vista da un tornante all’altro. Il nostro sguardo deve inclinarsi notevolmente su su per osservare il cielo. Mancano ancora quattrocento metri. Poi finalmente si scorge l’ultima rampa, il rifugio, il cacumen del monte, la numerosa gente scesa dalla gabbiovia, le imponenti strutture delle “antenne ponte”, mirabile scempio del genio umano, ai danni di una natura fantastica.
Finalmente giungiamo su, tempo 1 ora e quarantacinque minuti, incluse le soste. Un record se pensiamo che il percorso vien dato, per escursionisti esperti, in 2 ore e quaranta minuti. Complimenti ai tiburziani, vecchietti e non, che hanno coronato l’impegnativa risalita entro le due ore.
Seguono alcune foto scattate dalla vetta del Capanne e nel corso dell’escursione, senz’altro più eloquenti di qualsiasi commento.
Vanì, 3 settembre 2011
RESOCONTO APOCRIFO
All’alba di un torrido 2 settembre 2011, convocata dal grande Capo Ivano, con criteri noti a lui solo, si è radunata su 4 automobili (una sola decente) una sparuta ma determinata e soprattutto “datata” rappresentanza del Gruppo Trekking Tiburzi: cinque sgarruppati vegliardi (tre con moglie al seguito: Ivano, Antonio e Alfio – quest’ultimo anche con cognata – e due single non per vocazione ma per diniego delle consorti a seguirli: Silvio e Gualtiero) ch,e ancora convinti di potercela fare, si erano messi in testa di perseguire un antico e segreto disegno: la scalata al Monte Capanne nell’Elba!.
Sembrava una scampagnata al mare in quell’isola felice tanto simile alla Sardegna e così infatti si presentò quando i nostri cinque e relativo seguito sbarcarono all’Hotel La Feluca di Bagnaia ma immediatamente capimmo che non c’era scampo: infatti dopo aver pranzato (si fa per dire) dal mitico Luciano alla Biodola (trovato per miracolo dopo un’ora di vagabondaggio alla sua ricerca grazie al noto orientamento on road del nostro Capitano), dove per la modica cifra di €25,00 avevamo gustato ben tre vongole in una matassina di spaghetti, lasciate le signore a crogiolarsi al sole ed il furbo Alfio sotto un ombrellone al bar con la scusa che doveva guardare le macchine, il Capo ci invitò a fare due passi digestivi lungo il sentiero che, partendo dal ristorante, si dirigeva verso Capo d’Enfola (a ciò si era abilmente sottratto anche Antonio diretto alla scogliera di Capo S.Andrea, dopo che aveva saputo che qualche straniera tra quegli scogli si toglieva per prendere il sole oltre al reggiseno anche le mutandine, ma giustificando il tutto con il desiderio di far vedere alla moglie un posto incantevole); i poveri Silvio e Gualtiero si erano sacrificati sperando che si trattasse solo di un quarto d’ora di cammino, visto l’orario ancora meridiano delle tre; si sbagliavano di grosso: fecero circa un terzo della intera traversata costiera elbana ingannati anche da almeno cinque fanatici trekkisti che incontrati a distanza di mezzora l’uno dall’altro, indicavano mancanti al Capo d’Enfola solo 10 minuti; ci fu concesso però un breve bagno ristoratore proprio alla meta dove solo un cane, di ignota nazionalità e un tedesco con mountain bike sulle spalle erano li oltre a noi; non disponendo di costume di ricambio ci cambiammo nel sottobosco, nel senso che ci infilammo i calzoncini dopo aver tolto gli slip, che però, essendo bagnati, ebbero la benefica funzione di rinfrescare il cervello una volta infilati in testa; così combinati rientrammo al punto di ritrovo presso il Ristorante da Luciano che ci volle offrire due birre per solo €25,00 e dove trovammo che il furbo Alfio aveva agganciato una bionda tedescona di età indefinita alla quale aveva sottratto non si sa come il numero di telefono, suscitando le gelosie di Antonio, rientrato da Capo S.Andrea, dove non aveva incontrato neanche una gnocca ma che raccontava invece di mitiche dee nude dai corpi simili alla callipigia Afrodite.
Quella notte Gualtiero (posso testimoniarlo) ebbe un crampo doloroso alla coscia sinistra, che gli inserì nell’animo alcuni dubbi atroci circa la sua capacità di partecipare alla programmata impresa, ma il mattino seguente una spessa coltre di nubi e qualche spruzzata di pioggia infusero a lui, e visibilmente anche ad almeno altri tre, la segreta speranza che la salita non si sarebbe potuta fare. Ciò malgrado l’inflessibile Ivano ci indusse, sicuro di previsioni meteorologhe ideali, a portarci in auto al punto di partenza di Marciana dove purtroppo alle 10,30 di mattina parcheggiammo sotto un sole fulgido con una temperatura di 34 °C all’ombra; il trucido non ci aveva informati che era previsto anche un torrido scirocco che già di primo mattino rendeva l’aria irrespirabile e densa di appicicaticcia umidità.
Partimmo quindi dalle vie desolate del paese, dove non incontranmo anima viva (quelle poche che erano rimaste in loco e non erano andate al mare si guardavano bene dall’uscire in strada e se ne stavano rinchiuse nell’ombra delle loro case), per immergerci nella prima parte del sentiero, protetto da alcune piante che, in cambio della poca ombra che offrivano, trattenevano ancor più l’umidità dell’aria, tantè che quasi subito ci trovammo fradici di sudore (con l’eccezione, per la precisione, di Silvio che, in virtù di un meccanismo fisiologico a noi sconosciuto, malgrado la tuta con pantaloni lunghi, per tutto il percorso non produsse nemmeno una stilla di sudore: evidentemente era riuscito a produrre una funzione corporea simile ad un condizionatore); la prosecuzione della prima parte dell’itinerario, praticamente fino al Santuario di S.Cerbone fu una faticata che riuscimmo a supportare decentemente, anche se Alfio aveva già iniziato a mutare colore, virando dal suo solito pallore mediterraneo ad un rosso vivace, e Gualtiero al contrario era diventato sempre più pallido nel viso già stravolto, incorniciato dai pochi fradici capelli; Antonio riusciva a dissimulare la sua grave situazione di affaticamento raccontando più a se stesso che agli altri le mirabili visioni del giorno prima a Capo S.Andrea, tanto che ci preoccupammo che avesse effettivamente visioni pseudomistiche indotte dalla vicinanza al luogo del Santo. Fu qui che incontrammo una guida del posto con al seguito un branco di femmine (?) alquanto stagionate, che vedendoci in quello stato ci guardarono con estrema pietà scongiurandoci dal proseguire, ma il nostro Capo giammai avrebbe rinunciato al vanto del Capanne e ci spronò a proseguire e, mentendo spudoratamente sui dati che il suo GPS gli trasmetteva, alzava di proposito notevolmente la quota già raggiunta, affermando che mancavano alla cima solo trecento metri di dislivello.
Purtroppo la seconda parte del percorso era completamente allo scoperto ed il sole e lo scirocco non ebbero la pietà di mitigare anche solo leggermente la loro presenza in temperatura e umidità e già al punto cosiddetto Caprile, raggiunto non si sa come, ci accorgemmo della menzogna propinataci da Ivano: l’iphone di Gualtiero con il suo precisissimo altimetro denunciava la mancanza alla vetta di circa 450 mt di dislivello; a quel punto anche Ivano dovette ammettere la verità ma calmò le proteste invocando la grandezza del paesaggio sottostante e la gloria che avremmo potuto trasmettere ai nostri nipotini sempre che fossimo arrivati in cima; le nostre condizioni erano visibilmente peggiorate: Alfio da rosso porpora era già passato all’indaco; Gualtiero dal pallido al bianco perlaceo (per il copioso sudore), e avrebbe potuto testimoniare la purezza del bucato lavato con Dash; Antonio aveva assunto un atteggiamento sempre più mistico e indicava nel cielo la presenza di luci sfolgoranti, in forma però sempre di donne nude e prosperose, che lo incitavano a proseguire per la conquista della vergine del Capanne (aveva messo a punto un meccanismo mentale che nel suo caso funzionava come stimolo a proseguire!); Silvio senza una goccia di sudore e senza l’ombra di fatica era uno schiaffo per tutti noi, Ivano compreso, che benché un po’ messo meglio (ma non tanto) ci concesse una breve pausa di ristorazione: da lì erano visibili quasi tutte le insenature dell’isola del versante nord ed il nostro pensiero andò inevitabilmente alle compagne, che nello stesso istante nuotavano nelle fresche e limpide acque di qualche baia, e formulò la tipica frase del menga: chi ce lo aveva fatto fare!!!
Ben presto però fummo richiamati all’ultima fatica, l’attraversamento prima di una ripida balconata trasversale fatta di blocchi di granito e poi sempre di granito (per noi che eravamo ormai di burro) una quasi verticale ed irregolare scalinata che non finiva mai; fu qui che Ivano raccolte le sue ultime forze diede prova che il Capo è sempre il più forte e, a rischio di infarto, forzò l’andatura lasciando gli altri vecchietti a salire con unghie, denti e forse anche con qualche cosa d’altro; la durata di una ora e 45 minuti per la salita va riferita solo a Ivano; gli altri arrivarono all’incirca in due ore nel seguente ordine e stato:
Antonio e Silvio giunsero per secondo e terzo, ma il primoo ebbe una crisi di rabbia, sostenendo che le donne erano tutte bugiarde, perché la vergine del Capanne non si era fatta trovare all’appuntamento, sembra fuggendo con un baldo giovane arrivato prima di lui ( non certo con il Capo, che sbruffa più del Cavaliere!);
Alfio per terzo con il colorito che ormai aveva raggiunto il violetto, non essendoci nello spettro dei colori visibili altra possibilità; Gualtiero buon ultimo, ma nessuno se ne era accorto perché da bianco perlaceo era diventato praticamente trasparente.
Ci volle una buona mezzora e diversi litri di fresca birra per far riprendere a tutti un aspetto sufficientemente decente dopo avere steso magliette, camicie, canottiere e forse anche un paio di mutande sulla rete metallica che delimitava lo spazio del piccolo rifugio, praticamente trasformato in uno stenditoio da bucato.
L’Elba, pur se in una leggera foschia, distendeva le sue belle insenature come stanche membra sotto di noi, molto più stanchi, felici però di aver potuto compiere un’impresa che all’età media della compagnia (veleggiante più verso i settanta che i sessanta) poteva essere considerata come la più bella zingarata tiburziana.
APPENDICE: La discesa per nostra fortuna, essendoci la bidonvia, fu fatta con questo mezzo (in caso contrario Gualtiero ed Alfio avevano già divisato di far intervenire l’elicottero della Protezione Civile) e così Antonio, che non aveva digerito il distacco inflittogli da Ivano, si prese una solenne rivincita: alla discesa dal suo cestello si rivolse ai manovratori della bidonvia invitandoli a dare una mano, nella uscita dal mezzo, al “vecchietto” che scendeva nel cestello successivo, trattandosi di persona anziana e con vistosi problemi di deambulazione, cosa che questi fecero con eccessiva sollecitudine, rallentando al massimo la velocità della bidonvia, fin quasi a fermarla, e approntando una specie di poltroncina per disabili: nel cestello successivo c’era, da solo, Ivano che fu preso letteralmente per le braccia, sollevato da quegli energumeni e deposto, suo malgrado e nonostante le vivaci proteste, nella poltroncina.
By Gualco da Marinella
MISCELLANEA
ELBA PRINCIPALI SENTIERI PERCORRIBILI.
Brevi cenni geografici, storici e geologici
Terza isola italiana, posta avanti il canale di Piombino a 42°47’12” latitudine nord – 10°16’28” longitudine est. Superficie 224 Kmq, offre un andamento altimetrico di tutto rispetto ed alquanto interessante (Monte Capanne 1019 mt – Monte Giove - Monte Serra – Monte Calamita). Sviluppo costiero di ben 147 Km, isola verde lussureggiante, presenta un continuo alternarsi di cale, promontori, penisole, baie e spiagge sabbiose. Tranne qualche tratto di costa bassa, presenta continuamente rocce granitiche alte od a strapiombo sul mare, sempre limpido e profondo. Clima particolarmente mite, scarse le piogge, limitate al periodo invernale, ne fanno l’ideale per trascorrerci in tranquillità un pugno di ferie annuali.
“”[ Ho sempre pensato e descritto l’Elba come un’isola lontana dal mare. Chi non la conosce avrà sorriso: ma come lontana dal mare se questo Tirreno le è tutto intorno e nelle giornate di libeccio frange ai suoi scogli e alle sue spiagge] …. [ Il segreto del fascino elbano è in un’alchimia salmastra e terrestre, in questo mare che appare e scompare ad ogni passo, in una isolanità tutta particolare, mai assediata dall’acqua che c’è, si vede, ma non impone.]”” Gaspare Barbiellini Amidei – Marciana 26 Novembre 1934 / Roma 12 Luglio 2007
Fu anche colonia greca, ma furono presumibilmente gli etruschi, per primi a penetrare l’isola veicolando Sardegna e Corsica. Qui rinvennero il ferro ed altri minerali preziosi, poi si spostarono verso la Toscana (Vetulonia - Colline Massetane) per diramarsi nell’Etruria Meridionale (Monti della Tolfa), mantenendo lo sfruttamento delle miniere elbane. Seguì la dominazione romana, che ha lasciato evidenti segni storici (Villa delle Grotte, Villa di Capo Castello, l’ara di Ercole). Nel VI secolo fu dominata dai Longobardi. Nel 1000 passò sotto il dominio pisano ed in questo contesto più volte depredata dai saraceni. Per prevenirne gli attacchi fu edificato il Castello del Volterraio, che spazia dalla sua altura a nord, entro tutto il golfo di Portoferraio fino al mare di Livorno. Verso sud il maniero controlla i versanti di Cavo, Rio Marina e Porto Azzurro.
Passò rispettivamente sotto lo stato di Piombino e Genova. Subì, intorno al 1534, altri attacchi dai Turchi e Saraceni. Il corsaro Barbarossa rase al suolo Grassera, paese che sorgeva nel territorio di Rio, ove sono ancora ben visibili i resti dell’antico abitato distrutto, mentre il Volterraio non fu mai espugnato.
Pimbino ed il territorio di Ferraia (Porto Ferraio), intorno al 1550 furono sotto il Granducato di Toscana, grazie ad una convenzione tra l’imperatore Carlo V ed il re di Spagna.
In questo periodo vennero fortificate alcune opere (Forte Falcone, Forte Stella e la Torre della Linguella).
Nel 1600 l’isola pervenne agli Appiani, influente famiglia toscana, mentre Portoferraio rimase ai Medici, che la edificarono sulle rovine di Ferraia.
Nello stesso anno gli spagnoli occuparono Porto Longone (Porto Azzurro). Sono testimonianze di quella dominazione I Forti di Focardo e San Giacomo.
Nel 1759 Porto Longone passò ai Borboni e nel 1737, Portoferraio ai Lorena, quando si estinse la famiglia dei Medici.
Nel 1796 gli inglesi, nell’intento di ostacolare le mire dei francesi, occuparono Livorno, stabilendo un proprio presidio in Portoferraio, con il placet del Granduca di Toscana. In quel periodo Porto Longone apparteneva al Re di Napoli, Portoferraio al Granduca di Toscana, il resto dell’isola al Principato di Piombino.
Ma nel 1799 la Toscana era quasi completamente dominata dall’esercito Napoleonico, eccezion fatta per l’Elba. I francesi ottennero integralmente l’isola nel 1801, in base a trattati internazionali.
Con la dominazione francese venne data all’isola un’organizzazione amministrativa secondo leggi ed usi transalpini, e posta sotto giurisdizione di un Alto Commissario Generale. Con il trattato di Fontainebleau l’Elba, costituita in Principato, fu assegnata in piena sovranità e proprietà a Napoleone Bonaparte, quale riconoscimento dei suoi meriti ma di fatto costretto a risiederci, quale esilio dorato. Luigi XVIII, era tornato in auge.
Il 4 maggio 1814, il sovrano prese di fatto e di diritto possesso dell’isola. Durante la sua breve permanenza apportò modifiche tutt’ora evidenti. Istituì quattro nuovi comuni: Poggio, Marciana Marina, S.Ilario e Rio Marina, portandoli a 10. Incrementò e migliorò l’agricoltura, la pesca, progettò e fece costruire le strade tra i comuni litoranei, inesistenti. Le miniere vennero sfruttate fino al massimo rendimento delle loro potenzialità. Già il 26 febbraio 1815 lasciò l’isola, presumibilmente senza più ritorno. Scoccano i fatidici 100 giorni!
Illuso di poter tornare di nuovo al comando della Francia, subirà le peggiori mortificazioni fino ad affrontare una pesante condanna all’esilio. Ormai eminenti personaggi della Gallia Transalpina, in combutta con altri regnanti europei, avevano deciso futuro e sorte dello scomodo “piccolo grande uomo”. Il suo destino era segnato. Lo scorno dell’isolamento in Sant’Elena ove, relegato, ne minerà pesantemente la salute fino alla morte prematura.
Era soltanto il 16 ottobre 1815, quando la nave da battaglia inglese HMS Northumberland era giunta a Sant'Elena col prezioso carico. Ivi, con un piccolo seguito di fedelissimi, fu trasferito nel villaggio interno di Longwood. Qui vi rimase fino al dì del suo decesso, avvenuto 6 anni dopo, correva allora l’anno 1821 - ore 17.49 – addì 5 maggio.
Morì sconfortato, privato di onori e gloria, cui era avvezzo! Ignorando i solenni versi “italiani” della poesia scritta di getto, alcuni giorni dopo la sua morte, dal Manzoni. Mio malgrado, dovetti imparare totalmente a memoria quell’Ode all’imperatore, durante le vacanze natalizie di un lontano anno scolastico. Quasi un elogio ad un eroe “nazionale”!
Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, cosi' percossa, attonita la terra al nunzio sta, muta pensando all'ultima ora dell'uom fatale; ne' sa quando una simile orma di pie' mortale la sua cruenta polvere a calpestar verra'. Lui folgorante in solio vide il mio genio e tacque; quando, con vece assidua, cadde, risorse e giacque, di mille voci al sonito mista la sua non ha: vergin di servo encomio e di codardo oltraggio, sorge or commosso al subito sparir di tanto raggio; e scioglie all'urna un cantico che forse non morra'. Dall'Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno; scoppio' da Scilla al Tanai, dall'uno all'altro mar. Fu vera gloria? Ai posteri l'ardua sentenza: nui chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito piu' vasta orma stampar. |
La procellosa e trepida gioia d'un gran disegno, l'ansia d'un cor che indocile serve, pensando al regno; e il giunge, e tiene un premio ch'era follia sperar; tutto ei provo': la gloria maggior dopo il periglio, la fuga e la vittoria, la reggia e il tristo esiglio; due volte nella polvere, due volte sull'altar. Ei si nomo': due secoli, l'un contro l'altro armato, sommessi a lui si volsero, come aspettando il fato; ei fe' silenzio, ed arbitro s'assise in mezzo a lor. E sparve, e i di' nell'ozio chiuse in si' breve sponda, segno d'immensa invidia e di pieta' profonda, d'inestinguibil odio e d'indomato amor. Come sul capo al naufrago l'onda s'avvolve e pesa, l'onda su cui del misero, alta pur dianzi e tesa, scorrea la vista a scernere prode remote invan; tal su quell'alma il cumulo delle memorie scese. Oh quante volte ai posteri narrar se stesso imprese, e sull'eterne pagine cadde la stanca man! |
Oh quante volte, al tacito morir d'un giorno inerte, chinati i rai fulminei, le braccia al sen conserte, stette, e dei di' che furono l'assalse il sovvenir! E ripenso' le mobili tende, e i percossi valli, e il lampo de' manipoli, e l'onda dei cavalli, e il concitato imperio e il celere ubbidir. Ahi! forse a tanto strazio cadde lo spirto anelo, e dispero'; ma valida venne una man dal cielo, e in piu' spirabil aere pietosa il trasporto'; e l'avvo', pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al premio che i desideri avanza, dov'e' silenzio e tenebre la gloria che passo'. Bella Immortal! benefica Fede ai tronfi avvezza! Scrivi ancor questo, allegrati; che' piu' superba altezza al disonor del Golgota giammai non si chino'. Tu dalle stanche ceneri sperdi ogni ria parola: il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, sulla deserta coltrice accanto a lui poso'. (Alessandro Manzoni, odi civili 1821) |
Con l’annessione della Toscana al Regno d’Italia, l’isola d’Elba seguirà lo stesso destino entro il nuovo stato, ma questa è un’altra storia, arcinota, cui comunque si rimanda chi ne disconoscesse tratti ed epilogo.
Del periodo napoleonico sono presenti in Portoferraio gli arredi ed altre cose personali dell’imperatore, posti nei musei delle ville dei Mulini e di San Martino. Mentre la chiesa della Misericordia sempre di Portoferraio, custodisce le copie in bronzo della maschera mortuaria e della mano destra di Napoleone, realizzate da calchi originali eseguiti in S.Elena, chiaro segno di amore e devozione degli isolani per l’uomo. Per la verità per me Napoleone, per sacrosanti motivi personali e spirito nazionalistico, è sempre stato un personaggio storico indigesto. Rinnegata la terra di origine della sua famiglia (Firenze - Toscana), fu l’artefice del trafugamento di opere del nostro patrimonio artistico e culturale. Per una strana sorta di legge del contrappasso, rinnegato poi dal suo amato popolo francese.
Interessantissimo l’aspetto geologico dell’isola, ove sono state rinvenute 150 specie di cristallizazioni minerarie. Completamente granitico il tratto del monte capanne, mentre sono presenti minerali di ferro nella parte sud (Limonite, ematite e magnetite), Cavo, Rio, Capo Liveri e Punta Calamita.
Spunti tratti dal volume “La Guida ai sentieri dell’Elba” ed. Comunità Montana Elba e Capraia – C.F.S. – C.A.I. Livorno – Renato Giombini/Mario Ferrari – 2^ edizione
Vanì 14/09/2011
FOTO DI ACE & VANI'