NdR: Quest'anno abbiamo voluto strafare, un pò per la scusa di andare ad aprire altre escursioni, un pò per una rimpatriata alla "AMICI MIEI", ed abbiamo organizzato una tre giorni intorno al Vettore ed all'Antro della Sibilla.
Siamo andati in 4: il Ns, Gualtiero, Antonio e l'irrefrenabile Lino. Non tutto può essere qui raccontato (ehm...., sennò che zingarata sarebbe !), nè le foto o il pur frizzante racconto che segue riescono a rendere la bellezza, i profumi, le luci dei luoghi esplorati, nè tantomeno possono essere resi i sapori, veramente unici, della cucina locale.
A Voi che ci seguite può essere solo promesso che, se vi comporterete bene, un salto da queste parti ve lo faremo fare!
Al parcheggio di Rubbiano lasciamo finalmente l’automobile di Antonio, dopo un viaggio che membra e capo ci lasciano leggermente intorpiditi.
Noi, metà tusci e metà maremmani, un pò santi poeti e navigatori, non vediamo l’ora di cimentarci nei più impervi sentieri montani descritti nella Guida " L’Umbria a piedi " di Stefano Ardito. Dobbiamo oggi seguire il Fiume Tenna, dalle Gole dell’Infernaccio fino alle sue sorgenti, per un percorso di complessivi 12 chilometri. Al ritorno, se scappa tempo, prevediamo un salto all’Eremo di S. Leonardo ed alla "cascata nascosta".
Di fronte a noi un’elevata parete rocciosa non lascia ben intravedere alcun passaggio per l’accesso alle decantate gole. Però, procedendo avanti nel cammino, percepiamo che un piccolo sentiero si inoltra alla base di tortuose, imponenti ed elevate coste. Sono queste le Gole dell’Infernaccio, scavate dall’impeto del Tenna nella roccia e noi fremiamo dalla voglia di percorrerle. Il sentiero è ricavato nell’alveo di questo fiume precipite. Un orrido, per dirla alla maniera montana, in cui le pareti contorte si sfiorano appena tra loro per poi distaccarsi e raggiungere le vette della Sibilla a sinistra e del Monte Priora a destra, elevate fin oltre 2.000 metri. Questo piccolo torrente che discende dai ghiacciai della montagna, con rumore assordante, ha ripartito la sua montagna in due. Ha scavato, millenni addietro, il suo alveo, dapprima in quota e poi sempre più in basso, nel punto in cui è stato ricavato il nostro sentiero. Incerto e pericoloso d’inverno, per le probabili valanghe che si abbattono su di esso, ed in primavera, per lo scioglimento delle nevi, che causa malaugurate cadute di roccia.
Passiamo ora sotto le “pisciarelle”, autentiche docce involontarie che discendono dall’alto della parete e ci bagnano le membra. Contro il sole queste piogge formano piacevoli riverberi ed arcobaleni e noi ci divertiamo infantilmente a risalire con lo sguardo il cammino di questi goccioloni che, dall’alto, giungono addosso a noi, filtrati dalla roccia carsica, dopo una caduta di una cinquantina di metri. A ridosso di queste, due targhe di bronzo, ricordano le vittime sacrificali che la montagna, in un recente passato, ha voluto tra i suoi impenitenti amanti:
”Cennerilli Giuseppe 1936/1979 - Mauro 1956/1979.
Salimmo questi monti con l’esuberanza degli anni e la gioia di sempre ignari della tragica fine che volle gli steli, delle nostre ancor giovani esistenze, recisi, lasciando i familiari nel dolore ed agli amici imperituro ricordo. 03/03/1979”
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”Viti Lorenzo – Si ricordano con vero rimpianto le sua grandi qualità di uomo che ha dato tutto alla famiglia – 05/07/1982”
Traversiamo due incerti ponticelli in legno con sguardi fissi, volti a cogliere ed immortalare, con le nostre digitali, innumerevoli e suggestive immagini che ci circondano. La stratificazione e diversità delle rocce che si riconosce dalle piè disparate morfologie e sfumature di colore, crea architetture straordinarie, ora a tavole sedimentarie di fango marino, contorte a seconda del volere dei movimenti tettonici, ora carsica – piè spessa e ricca di gusci dei microrganismi marini antidiluviani, ora lavica. Gli Appennini, sappiamo, stanno tuttora emergendo dalla piattaforma continentale per effetto della spinta che l’Africa continua ad esercitare sull’Europa nella incessante deriva dei continenti. Queste rocce montane, una volta fondale marino, subiscono tuttora un continuo e lento innalzamento. Poi gli agenti atmosferici provvedono a scolpirle secondo la loro composizione e durezza. In particolare la conformazione carsica le rende molto friabili e solubili allo stillicidio dell’acqua piovana che, nei secoli, le perfora, ne scinde le sostanze, scavando immense ed inopinabili gallerie e caverne sotterranee ricche di stalattiti e di stalagmiti.
Riprendiamo il cammino sul bordo dell’alveo del Tenna, sempre impetuoso ed assordante, tra una fitta vegetazione, che riesce caparbiamente ad attecchire sulla nuda roccia nutrendosi dello scarso humus trattenuto dalle radici. Sulla destra del percorso si apre una lunga galleria, il cui accesso è interdetto per motivi di sicurezza, il passaggio permette di eludere il sentiero delle gole. Proseguiamo tra i tornanti del Tenna, che viaggia sempre più convinto, impetuoso e deciso. Lasciate dietro le gole arriviamo a congiungerci ad un bivio che sulla destra porta all’ Eremo di S. Leonardo. Avanti diritto c’è Capotenna, che si raggiunge attraverso l’omonima valle, descritta come un eden di verde tra multicolori fiori appenninici tutto circondato da rocce. Decidiamo di visitare prima l’Eremo per misurare il tempo e le nostre energie.
Prendiamo per il sentiero che, a destra, si inerpica per i monti, già via di comunicazione che fino all’alto medioevo congiungeva le Marche alla Val Nerina ed a Roma. Percorriamo numerosi ed impervi tornanti di una fitta faggeta, senza mai riuscire a scollinare o vedere quei lampi di luce degli svuoti, che rinfrancano lo spirito nelle risalite. Finalmente raggiungiamo il balcone assolato dove è situato l’eremo. Questo con un’ incredibile vista si staglia avanti a noi contro la rocciosa Val di Tenna, da qui tutta boschi e pilastri calcarei. Il complesso monastico, in stile romanico, fu edificato tra il X ed XI secolo ed abitato nel corso dei secoli da vari ordini ecclesiastici. Posto sul passo che consentiva attraverso la Val di Tenna, di bypassare l’impervia catena montuosa dei Sibillini, congiungendo l’adriatico con il tirreno, doveva essere molto frequentato da commercianti e pellegrini nei loro spostamenti ascetici, che qui trovavano ristoro e ricovero per una notte.
Attualmente il cenobio è abitato da Padre Pietro, un frate cappuccino che da solo lo sta restaurando, ed anche se i criteri architettonici applicati risultano alquanto discutibili, finestre che riportano al gotico su preesistenti strutture in stile romanico, è innegabile che gli interventi effettuati hanno creato un complesso piacevole ed ameno e di grande effetto scenografico. Una piccola sosta tanto per ricevere un invito a pranzo dalla ultrasettantenne perpetua che, alla vista di noi giovani e baldi “ragazzi”, si lascia scappare la frase “e fermateve a pranzo tantu nu piatto de pasta nun ce costa gnente”. Di diverso avviso ci è sembrato Padre Pietro con il suo sguardo eloquente, forse geloso delle attenzioni rivolteci. Oggi non sono soli, i due sono stati raggiunti, da gente amica che non dispensa aiuto e lavoro. I loro volti chiaramente trapelano pace e serenità. Ma l’attrazione che il luogo esercita anche su di noi è veramente tanta, si avverte una certa magia che invita a restare in quel paradiso senza tempo, a distendersi e dimenticare le cure, gli affanni ed il mondo. Ci colpisce una sorta di ebbrezza che dà un buon bicchiere di vino! E questo noi non ce lo possiamo permettere. Non possiamo cadere vittime della Sibilla, delle sue pratiche magiche, pozioni ed adulazioni.
Foto di rito, zaini in spalla, e poi via, via per la “cascata nascosta”, dopo aver riempito le nostre borracce ad una fonte di sasso che dispensa con avarizia un filino di acqua fresca e molto gradevole. Percepiamo, nel cammino, il fragore di un fiume che scende impetuoso dai monti, che man mano si fa sempre piè assordante. E’ "Il Rio", ci dicono le carte, un Fosso che si congiunge, avanti Rubbiano, con il Tenna che riversa poi il suo carico d'acqua nel Lambro. E' su questo corso d’acqua che si trova la cascata che cerchiamo. Il sentiero è lungo e si avvolge attorno ad una costa a precipizio sulla valle. Qui Gualtiero perde inavvertitamente una parte della bacchetta da trekking. Ma il guaio peggiore investe Antonio. Con ai piedi le sue famose Timberland comperate in Montana, nel corso dei suoi innumerevoli spostamenti per il mondo, ovunque ostenta ed osanna quelle calzature e cammina spedito, da Dio! Chissà quanti chilometri avranno già percorso forse 100.000 o forse 200.000, chissà, lui ancora ci si trova proprio bene. Queste calzature da record lo trasportano fin dal 1985, senza chiedere silicone o lucido, ma solo grasso di foca (che Iddio la benedoca …). Ma, non appena intercettiamo rocce sul sentiero dirupato ed il passo si fa piè lento ed incerto, la struttura delle sue calzature si rilassa un pochino. Le suole, al contatto con l’acqua di un ruscello che scende verso di noi a "rocchio" , cominciano a perdere aderenza e collassano; una di queste si scolla di punta tanto da sembrare il muso di un cane affannato da cui sporge la lingua. Così Lui non puè certo procedere oltre: tentiamo di legare la suola alla scarpa. Niente da fare, non tiene. Infine, con un gesto deciso recide definitivamente la suola. Ed ora? Il poverino, rimasto proprio co’ ‘na scarpa e ‘na ciavatta, è costretto a procedere, quasi zoppicando. Ci affidiamo alla pietà del buon Dio. In caso di definitiva rottura della calzatura il malcapitato dovrà procedere oltre con il solo calzettone, poi dopo presumibili lividi e vesciche, lo dovremo portare a spalla od in barella, da costruire secondo il manuale delle giovani marmotte! Sono sinceramente turbato! Il percorso è lungo e tortuoso, abbiamo poco scampo.
Giungiamo finalmente in vista della cascata nascosta. Bellissimo il salto di acqua, discende da un centinaio di metri da una gola angusta del monte, entro un canale scavato verticalmente. Alla base ha formato un delizioso e limpido laghetto. Qui pranziamo con poca calma al pensiero dei problemi che ci aspettano ed alla vista che anche l’altra calzatura sta per cedere. Ripartiti, infatti, poco dopo dobbiamo staccare anche la suola dalla restante scarpa. Recuperate le due suole, Antonio tenterà di farle riattaccare a Civitavecchia. Per fortuna Lui, aperto a tutte le tempeste, per evitare danni maggiori alle sue calzature, ormai ridotte al lastrico, riesce a camminare di tacco, sollevando le gambe senza piegare il ginocchio. Il suo incedere somiglia alla marcia del generale Radetzky. Io lo seguo ravvicinato osservandolo con attenzione in attesa del peggio. Lo tampino nella speranza di agguantarlo al volo nel caso si butti nel dirupo dalla disperazione. Ma la sua buona stella oggi lo protegge. Giungiamo infine sulle sponde del Tenna che ancora le sue sottosuola sono attaccate alle tomaie.
Dovevamo risalire il percorso fino a Capo Tenna, ma dobbiamo rinunciare, pazienza torneremo.
Al bivio per evitare le gole dell’Infernaccio, percorriamo la galleria scavata nella roccia, lunga forse piè di un chilometro ma completamente buia. Per fortuna i miei amici hanno al seguito delle torce elettriche, così riusciamo a vedere dove poggiamo i piedi. In fondo al traforo si staglia l’uscita, un puntino di luce, millimetrico, all’interno è un continuo rimbombo ed echi delle voci dei piè loquaci. Sembra di nuotare senza peso, in un sogno, entro un mare incerto di fango nero che ci avvolge tutti. Usciamo finalmente da quell’incubo, per passare poi sotto le Pisciarelle.
Questa volta, io e Gualti, cerchiamo di prendere in pieno gli scrosci d’acqua, che ci riportano a nuovo energie e detergono le membra e le vesti dal nostro salatissimo sudore. Antonio si fa promettere che giunti in macchina, cambieremo i nostri indumenti per non inzuppare i sedili della sua vettura. Noi, che abbiamo già sopportato la sua giaculatoria sulle scarpe, tolleriamo perfino questa assurda richiesta. Lino allunga il passo con la sua " presa diretta " mentre Antonio, al suo passo, giunto al parcheggio si accorge che massaggiando le vesciche avverte un certo sollievo.
E’ la nostra seconda lunga zingarata … ufficiale …. e spero ne faremo ancora altre… se riuscirò a trovare ancora nomadi come me, pronti a sacrifici, lontano dalla famiglia, dalle mogli...!
Oggi ci aspetta la risalita lungo il corso del torrente Aso fino al suo emissario, il Lago (o laghi) di Pilato posto a mt 1.941 s.l.m.. Questo corso d’acqua scorre ad un passo dal nostro Albergo, “Il Guerrin Meschino” di Rocca (frazione di Montemonaco), con un rumore lungo, monotono ed incessante. Tutte le notti il suo mormorio ci ha favorito il sonno, dandoci poi appuntamento lassù, dove esso sorge. Le sue acque servono l’acquedotto Piceno per servizi non potabili, ricevendo più a valle, a Montemonaco, gli scarichi fognari del paese. Ma avanti il nostro albergo, è certo, la sua acqua è purissima, freschissima, altissima ed ottima (merita ben quattro superlativi ed un riconoscimento!), noi la beviamo con piacere a cena, dopo abbondanti libagioni cui siamo costretti di forza dall’ostessa Francesca Jachini, preoccupata per la nostra esile linea, e riconosciamo a quest’acqua un elevato potere digestivo. Con ciò non dico che è stato disdegnato l’ottimo “rosso” che ha passato il “convento”, cui abbiamo dato giusto merito e imponderato sfogo!
Tornando al nostro torrente, per la maggior parte del suo alto tratto, l’Aso, passa la vita a scorrere sotto la catena montuosa. Filtra sotto le rocce freatiche del lago, percorrendo un tratto di circa un chilometro e mezzo inabissato entro superficiali falde, per rendersi visibile soltanto a fonte Matta, ove emerge presentandosi come una ovale pozza d’acqua ghiacciata. Poi rispunta a Foce (appunto) dove sono indicate le sue sorgenti. Il timore degli Enti locali è quello di vedere un giorno svuotato il bacino del Pilato, temendo che le falde del suo letto prima o poi sprofondino entro caverne e pozzi, sotterranei sicuramente esistenti sotto di sé.
Il lago deve il suo nome al Prefetto della Provincia Romana della Giudea che sancì la condanna di Gesù. La leggenda racconta che Pilato, dopo la sua destituzione dall’incarico, per eccessiva ferocia, fu condannato a morte da Tiberio. Il suo corpo chiuso in un sacco, venne posto su un carro trainato da bufali, liberi di peregrinare senza meta, sarebbe precipitato nel lago, dall’affilata cresta della Cima del Redentore, le cui acque ribollirono e da allora assunsero un colore rosso. Questo colore fu quindi attribuito al sangue del Prefetto Romano, ma la vera causa è in effetti la presenza di un piccolo gamberetto rossastro, il Chirocefalo del Marchesoni, lungo appena 8 – 11 mm., che nuota a pancia in alto. Il crostaceo non sopravvive nei periodi siccitosi, ma le sue uova riescono a scongiurare l’estinzione riproducendosi anche se rimaste all’asciutto per lungo tempo, mentre il suo depositore è già da tempo morto, purché il bacino del lago si riempia nuovamente d’acqua.
Una lieve citazione merita questo singolare gamberetto d’acqua dolce. Egli appartiene alla famiglia degli anostraci, crostacei primitivi, che si presentano privi del guscio esterno, forma relitta di un gruppo ancestrale di origine orientale! La fecondazione delle uova avviene all’interno del corpo, in seguito le uova vengono deposte tra le rocce. Si schiuderanno nei momenti più propizi. Ma, nel corso del mio sopralluogo ho notato anche un altro abitante nelle acque del Pilato, il Ditisco, con mio sommo dispiacere, tanto da temere per la sopravvivenza del Chirocefalo. Avevo avuto modo di conoscere questo formidabile insetto nei nostri stagni ed in quelli della Sardegna. Di dimensione decisamente più piccola, quelli presenti nel lago di Pilato, mm. 4 o 5 c.a., ma non per questo meno micidiale delle nostre specie comuni, lunghe anche circa 5 centimetri. La caratteristica di questi insetti è che vivono in acqua, sono dei sub provetti, ma possono anche fare lunghi voli, grazie ad apposite elitre, per spostarsi di stagno in stagno. Essi vivono predando da larve o da adulti, pesci, gamberi, girini, anche di dimensioni notevolmente più grosse di loro. Bloccano con robuste mandibole le loro prede, iniettando entro il loro corpo un liquido ricco di enzimi che liquefa rapidamente gli organi interni. Successivamente provvedono a risucchiare tutta la sostanza nutriente dalla preda per portare a termine il pasto. Ma noi siamo fermamente convinti che questo bacino ed i suoi abitanti vadano fermamente salvaguardati e protetti, e lasciati vivere in pace secondo i criteri e principi di sopravvivenza che madre natura ha imposto, senza nessun intervento dell’uomo, anche se… anche se ritengo personalmente di aver visto troppi ditiscidi nel lago di Pilato e nessun Chirocefalo. Sarà la presenza di questo predatore a regolare e ridurre drasticamente la popolazione del gamberetto rosso? Ma chissà! Spero solo che i ditiscidi non estinguano questi chirocefali sopravvissuti a tante ere geologiche, ne sarei francamente addolorato. A me è veramente simpatico questo strano e particolare viaggiatore del tempo!
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Il bacino del lago non accolse soltanto le spoglie del Prefetto romano. Sembra che la gente del Paese ne impedisse l’accesso, perché ritenuto sede del dimonio. Non a caso le belle pareti dolomitiche dei monti della Sibilla sono state chiamate “Pizzo del Diavolo” mentre, come per pareggiare i conti, il suo acrocoro porta il nome di “Cima del Redentore” (2.448 msl), che fa parte della più ampia catena del Vettore (il cui picco, il Monte Vettore, opposto al “Redentore” è alto ben 2.476 msl. La Catena montuosa, a forma di “U” raccoglie nella conca del suo altipiano il bacino del Lago, che il residuo di una “morena” del quaternario, ne impedisce lo svuotamento, la caduta delle acque verso est. L’altipiano ove è posto il “Pilato” è ciò che resta di passate glaciazioni, ed è l’unico esempio di lago glaciale sulla catena appenninica, la sua conca è quindi stata scavata e modellata da ghiacciai in fase di scioglimento, discendenti verso est, tra una glaciazione e l’altra. Ma torniamo alle considerazioni sul mondo dell’occulto e “profano” che oggi fanno decisamente più “cassetta” e le cui argomentazioni, a quanto pare, non appaiono affatto esaustive. La magia, ha sempre accompagnato, dominato ed aleggiato sui Monti Sibillini, sul Lago di Pilato e la Grotta della Sibilla. Quest’ultimo luogo, sembra fosse abitato da una maliarda simbolo del peccato carnale, del mondo pagano, quindi bandito dal mondo cattolico ( “noi arrrivamo sempre dopo le foche”).
Del lago poi si dice: (Leandro degli Alberti. Descrittione di tutta Italia 1557) “ … essendo volgata la fama di detto lago (…) che quivi soggiornano diavoli et danno risposta a chi li interroga, si mossero già alquanto tempo (…) alcuni uomini di lontano paese et vennero a questi luoghi per consacrare riti scellerati et malvagi al diavolo, per poter ottenere alcuni suoi (loro) biasimevoli desideri, cioè di ricchezze, di onori, di amenosi piaceri et simili cose”.
Questi innumerevoli pellegrini non ebbero vita facile. Le comunità montane fecero costruire intorno al lago mura invalicabili. Il Vescovo inoltre aveva fatto erigere forche in più punti, a monito dei trasgressori, che venivano poste in esercizio spesso e volentieri (forche d’Ancarano, Presta, Viola e Canapine etc.). L’accesso al lago maledetto era impedito dagli abitanti dei paesi montani, perché ritenevano (e perché gli avevano fatto credere) che ciò facesse scendere il dimonio tra loro.
“Non è molto che si sorpresero due uomini uno dei quali era prete (racconta Antoine De La Salle – che nel 1420 accompagnò Luigi III di Francia in un escursione sui monti Sibillini – Lago di Pilato – Grotta della Sibilla). Questo prete fu condotto a Norza e là martirizzato e bruciato; altro tagliato a pezzi e gettato nel lago da quelli che l’avevano preso”. Accertiamo con sempre evidenza che nel Medioevo, il potere temporale dello Stato Vaticano, egemone, impediva ad ogni costo il contatto della gente con altri ordini religiosi pagani, macchiandosi, come in altri casi, di turpi esecuzioni ed omicidi per ragion di stato, pareggiando le persecuzioni subite dei cristiani in Roma a partire dal 64 d.C.
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Ma riprendiamo la nostra escursione. Noi, fermamente convinti che il lago, pur trascinandosi dietro un alone di mistero, non possa ritenersi affatto “maledetto”, tanto meno sede di dimòni od altro, teniamo bene a mente la sua descritta, notevole, bellezza dalle varie ed esaustive pubblicazioni presenti sull’argomento.
Il cammino si presenta lungo e faticoso, dobbiamo superare un dislivello di c.a. 1.000 metri (da quota 945 a 1.940). Partiamo, per l’inizio escursione, con il disappunto di qualcuno, di buon ora da Rocca por raggiungere Foce, ove si lascia la vettura, La giornata è discreta, una lieve ed opportuna stratificazione nuvolosa, impedirà che i nostri corpi vengano bruciati dal sole. A Foce, presso il Rifugio Taverna della Montagna facciamo sosta. Sull’insegna del rifugio aleggia il motto “Hospites sacri sunt” (trad. letterale “chi ospita è sempre sacro”). Qui acquistiamo del pane, prosciutto e formaggio per il nostro “sacco”. Notiamo che il negozio vende interessante attrezzatura trekking, (scarponi, bastoni ecc.): il nostro Antonio, rimasto con scarpe rotte e senza cerase, avendo notato il prezzo promozionale di cessione di alcune calzature in vetrina, di bella manifattura, ha iniziato una lunga e travagliata trattativa con la proprietaria, anch’essa presa nel discorso d’insieme. Dopo una lunga e filosofica scena di tipo mediorientale il prodotto viene ceduto. Euro 70,00 (prezzo iniziale) più tre cartoline ricordo in omaggio. E, malgrado il nostro (falso: N.d.R.) disappunto, egli indossa sùbito le calzature acquistate, decantando continuamente, nel camminare, la loro comodità e leggerezza. Anche il nostro Lino attratto da scarponi più economici, ma dalla apparente forma più “stagna”, ha tentato invano una lunga transazione. La Signora piuttosto marpiona (probabilmente discendente dell’ultima Sibilla) voleva assolutamente affibbiargli il numero 41 che lui avrebbe potuto portare solo con l’ausilio di più paia di calzini. Ma la trattativa, poer sua fortuna, va a monte.
Finalmente partiamo! Percorriamo Val Gardosa tratto leggermente in salita, preludio a ciò che più avanti, molto più intensamente ci aspetta. Nel frattempo altri escursionisti ci sorpassano in macchina, per guadagnare più strada in carrozza, pur percorrendo mulattiere sconnesse. In questa Valle ci sono varie greggi di pecore. Notiamo che il caratteristico odore di questi armenti è diverso da quello delle nostre parti. Qui sembra più schietto e genuino. I cani pastori al seguito poi, neanche ci annusano, stanno sul prato a dormire, si, proprio come i nostri… Continuiamo avanti, ove poi facciamo una piccola sosta “margherite”. Uno di noi prende il fatto con più serietà, e per caso tra le varie foto scattate, così, nel riprendere il bel paesaggio che si prospettava lui, accidentalmente, è finito nel mezzo della ripresa, nell’esercizio delle sue naturali funzioni! Lasciamo alla sua discrezione, omettendo il suo nome, la pubblicazione sul sito di tale immagine.
Risalita Val Gardosa ci troviamo avanti una parete rocciosa ove il sentiero, ricavato tra le varie balze, è protetto con palizzate lignee piuttosto obsolete. Il tratto si presenta molto difficoltoso, per la forte pendenza. Per fortuna un alto bosco di faggi ci rinfresca e protegge dalla radiazione solare. Qui superiamo una coppia di escursionisti provenienti da Arezzo; lui è originario della Lucania. Questo Signore, che è una guida di sentieri umbri, ci informa che avanti troveremo un pendio ancora più forte ed arduo. I due molto saggiamente e, con provata filosofia, procedono con più tranquillità di noi. Ma il serpeggiante sentiero, che si fa sempre più acuto, viene da noi percorso con disinvoltura. Impieghiamo circa un’ora per portare a termine il tratto delle svolte (o balze), pur se qualcuno lamenta il "batter forte del cuore in testa". Quando finalmente scolliniamo ci rendiamo conto che ormai, più o meno, il percorso restante si presenta tutto scosceso, a parte qualche piccolo tratto di salita più lieve. E’ il caso, decidiamo, di procedere più lentamente facendo sosta ogni 50 metri di dislivello, per dare tempo al nostro cuore e sistema vascolare di adattarsi comodamente all’altitudine, che va man mano sempre più elevandosi. Come una sorta di decompressione aerea, essendo giunti ormai verso quota 1.500.
Ora gli alberi di alto fusto hanno lasciato il posto ad immensi prati verdi scoscesi, incastonati da una miriade di fiori montani, crochi, scille, gàgee, primule. Sui bordi precipiti, presenti vari ginepri e salici erbacei. Seguiamo ormai da tempo immemorabile il sentiero, opportunamente segnalato, di quando in quando, dalle bandierine bianco-rosse del CAI, dipinte su roccioni erratici. Alla nostra destra, avanti, si erge il Pizzo del Diavolo. Meraviglioso esempio di rocce dolomitiche, Non è visibile al di sopra la Cima del Redentore. Né, alla nostra sinistra, notiamo il Monte Vettore, perché coperto da antistanti bellissimi rilievi collinari. Il paesaggio è comunque da “cartolina”. Continuiamo la risalita, convinti di scorgere, dietro l’ultimo tornante il famigerato Lago. Ma niente da fare, quando finalmente notiamo che dopo l’ultima salita avanti a noi, si scopre un tratto di relativo piano. Cominciamo ad avvertire una certa stanchezza di fondo entro le nostre membra ma comunque ce la facciamo ancora, soprattutto sostenuti dall’idea di giungere quasi in vetta ai Sibillini. Giunti in cima all’ultima salita visibile, notiamo sul fondo del piano, che ora si prospetta dinnanzi, un piccolo lago ghiacciato. Non si tratta del “Pilato”, ciò sarebbe anche deludente, le carte indicano che questa pozza d’acqua é la Fonte Matta. Qui il torrente Aso emerge, proveniente dalle falde sottostanti del Lago di Pilato. Ed a mio avviso, a buona ragione, sono queste le vere fonti del torrente.
Ma non trascuriamo i prati tutti intorno ove splendono i colori delle campanule, dei garofani, delle genziane, delle centauree e delle viole, del papavero giallo. Frattanto dalle coste circostanti, in quota, percepiamo voci di escursionisti, che hanno scelto di raggiungere il lago da Forca Viola, da Forca Presta o dal Monte della Sibilla. Sono, questi passaggi, con dislivelli più accettabili di quello scelto da noi. Dobbiamo ancora percorrere ulteriori tornanti piuttosto scoscesi, prima di scorgere, finalmente il nostro lago. Posto in una vasta conca, circondato da rigogliosi prati di erba storna, ove fiorisce il raro papavero giallo e cresce l’uva ursina, ove fioriscono la silene acaule (cuscinetti fioriti di colore fucsia), i camedri alpini di colore bianco latte, la gialla linaria e la bianca androsace villosa. Il lago, bellissimo, non presenta il decantato colore rosso sangue, ma un colore verde cupo intenso. Sul suo fondo e tutto intorno alla riva spezzoni di roccia morenica di grandi e discrete dimensioni. Nella sua deliziosa valle conca gode di un particolare e delizioso microclima, protetto dalla catena ad U del Vettore. Non tira infatti qui nemmeno un alito di vento e l’aria, rarefatta di ossigeno, invita a sdraiarsi a prendere il sole, limitando al massimo i consumi.
Frattanto ci raggiungono due giovani ragazze di Macerata. Giunge anche il Signore Lucano con la sua amica di Arezzo. Giungono altri da tutti i pizzi delle cime circostanti che si dispongono tutti intorno al lago. Per la furia di fotografare il lago abbiamo posto poca attenzione ai monti ed alle pareti rocciose dei Sibillini che ora, grazie alla trasparenza dell’aria, si scorgono bellissimi. La Cima del Redentore, le dolomitiche coste di Pizzo del Diavolo, ed il Monte Vettore che circondano tutto il lago. Avanti c’è anche un altro lago, ma si tratta dello stesso specchio d’acqua che per motivi siccitosi presenta il fondale diviso in due da una emergente centrale catena di rocce.
Piuttosto stanchi e con i piedi un po’ doloranti, troviamo sollievo a toglierci gli scarponi, per immergere i piedi nell’acqua fresca del lago. Antonio si accorge che i suoi piedi si sono deturpati in più punti, vesciche e lividi che si sono aggiunti a quelli del giorno precedente. Ciò era prevedibile, frutto delle scarpe nuove e del tratto in salita! Le riserve idriche al seguito erano pressoché esaurite, per cui, senza esitazione, riempio la mia bottiglia con l’acqua del lago, cercando di non pescare alcun chirocefalo. Ma del gamberetto rosso non vedo nessuna traccia. Piuttosto noto molti ditiscidi che infaticabilmente, velocissimi, in immersione, scrutano le acque a caccia di prede. Colpisco una mosca che posatasi sulla mia gamba, era riuscita a succhiare qualche goccia del mio sangue. L’insetto finisce in acqua. Con una rapidità ed attenzione sorprendente un ditisco la cattura e sparisce sul fondo del lago. E’ qui che mi convinco sempre più che questi insetti possono rappresentare una minaccia per la sopravvivenza dei simpatici crostacei rossi. Mi accorgo anche che la temperatura del lago si aggira attorno ai tre, quattro gradi sopra lo zero, abbandono il mio recondito desiderio di immergermi nelle sue fresche acque, per ristorare le mie membra. Quel Signore Lucano poi mi riferirà che è vietato addirittura avvicinarsi alle coste del Pilato, tanto meno immergervi le membra entro, come abbiamo fatto noi. Notiamo infatti attorno alla riva un insieme di cartelli in bianco, privi di scritte, certamente un dì recavano tali prescrizioni, ora affatto leggibili. Ci scusiamo per questo con le Regioni Umbria e Marche, sperando di non aver turbato un ecosistema. Figurarsi noi, contravventori, che abbiamo un religioso rispetto per la natura!
Ripartenza ore 15.00. Per la cronaca la risalita è stata effettuata da tutti noi entro il tempo record di tre ore, contro le tre ore e trenta previste, per un discreto scalatore, dalle pubblicazioni lette. Discesa crucis per Antonio, i cui piedi ricordano il ciuco del pentolaio, che aveva nel sotto coda la sua parte più sana, ove erano presenti soltanto 33 piaghe infette! La discesa viene coperta in poco più di 2 ore e mezza e noi tutti siamo piuttosto provati. Il giorno dopo rinunciamo infatti a percorrere il bel Canyon dei frati ribelli nella valle del Fiastra. Gli diamo appuntamento ad un’altra occasione, così, come si fa dopo aver conosciuto una bella donna!
Di ritorno, sosta obbligata al Rifugio Taverna della Montagna per sorseggiare un paio di birre fresche; nel frattempo della nostra risalita, la Signora ha rinvenuto in magazzino le scarpe numero 40 del tipo che Lino cercava, per cui anche lui procede all’acquisto, pensando che la maliarda Sibillina ci ha provato a rifilargli il numero 41, che non riusciva a sbolognare! Si, ma a me sfugge il movente!
Non ci sfugge però, nel ns bello ostello, di onorare la succulenta cena che ci prepara la simpatica ostessa: antipasti abbondanti, un piatto di gnocchi al ragù di funghi, costolette di profumatissimo agnello (fritte e alla scottadito..), il bel vino rosso forte e ristoratore, il dolce della nonna, un distillato d'anice robusto e corroborante, ma anche tanta, tantissima acqua minerale fresca di vera fonte.
Ed infine il meritato riposo sotto lo sguardo benevolo della Luna sui Sibillini.
Termina qui il racconto della nostra ascesa dei monti Sibillini, per raggiungere il lago di Pilato, quando, presumibilmente, a quest’ora i nostri già scarsi lettori avranno sicuramente preso sonno. Comunque ai più caparbi, il nostro ringraziamento soggiungendo che:
1- verrà loro conferito un particolare riconoscimento “patientia et fidelitate”
2- le prossime aperture non verranno più commentate, ma soltanto corredate da servizi fotografici. (NdR: tranquilli, il ns mentore borbotta solo un pè, ogni tanto, come i vecchietti, ma gli piace scrivere ! )