E finalmente fu la luce ed i “Tibur’s” poterono escorrere, dopo circa un mese di latitanza. E degli effetti nefandi di questa inattività, a dire il vero, eccezion fatta dei camminatori civici, dei palestrati, fungaroli e raccoglitori di erbe spontanee in genere (e di Lilla) , se n’è avuta ampia dimostrazione. Poi tranne che al solito “ritrovo” - donde ormai partiamo per le escursioni da circa 15 anni - ove funestato da incredibili incontri , nel contare gli oltre 40 convenuti, ho inavvertitamente pestato escrementi di cane, ho potuto ammirare i volti dei convenuti, pur se avvolti da caldi copricapo a larga tesa, calati fin sul mento.
Ma è stato appena sufficiente muovere le gambe, dopo aver aggirato Poggio Ombricolo, per riprendere possesso delle arcate plantari e relativi terminali, rimasti a lungo privi di circolazione sanguigna. Due gradi sotto zero, pozze ghiacciate, tramontana tagliente, sono subito miracolosamente scomparse, già nei pressi del Defizio del Piombo (termine difficile da scrivere soprattutto a causa del correttore del mio wordprocessor che continuamente tenta di mutare defizio in “delizio”).
L’opificio de piombo appare sempre così ameno e sereno, ai miei occhi, posto là ad occupare la depressione collinare, ove un gaio ruscelletto discende giù dal colle della “Fontanaccia”, (questo spregiativo non poteva essere più appropriato dopo che hanno visto aggirarsi nei pressi loschi figuri!).
Le acque di detto ruscelletto, sbarrate da una chiusa, avrebbero dovuto muovere, in caduta, i pesanti macchinari del complesso siderurgico del Defizio, riducendo le onerose spese generali, ma non andò esattamente così.
Dal libro “Le Lumiere” dell’ottimo Riccardo Rinaldi, ed. 1978, apprendiamo sul Defizio:
“la macchina della pesta è mossa da una ruota di cinque piedi di diametro la quale ha due manivelle, e si fa girare a braccia d’omini per mancanza d’acqua, ma avvi lusinga, che potrà condursene quanta abbisognerà. Essa fa cadere otto pestoni ferrate (sic, proprio ferrate …) in una cassa ove mettonsi i pezzi di minerale povero e misto. Una sottil vena d’acqua sgorga nella cassa onde stemperare il materiale, e con il veicolo di questo fluido passa il più fino in altra simile cassa mediante un foro guarnito di una graticola onde vietare l’esito ai pezzi che non sono infranti. L’acqua che è carica di tenuissimi lamelle di galena, che la colorano in turchino trasmigra da questa cassa in un terzo recipiente d’onde la galena si estrae poiché è caduta al basso, e mandasi al forno …”
In questa fonderia, nel 1773 lavoravano 24 persone: dieci giovani ancora minorenni e 11 operai addetti alle miniere. Gli operai venivano pagati 2 paoli al giorno, i ragazzi minorenni 12 baiocchi (dati riportati sul volume del Rinaldi, già citato).
Il piombo ricavato da questa lavorazione era di qualità eccezionale e superava di gran lunga, quanto a purezza, quello ricavato in altre miniere europee contemporanee. In due anni dal Defizio vennero estratti soltanto 30 pani di piombo, questo ne causò il fallimento gestionale. L’appaltatore, tal Carlo Ambrogio Lepri, nel 1778, registrava una spesa di scudi 2500 impegnati per quel processo di produzione. Nel 1778 la Camera Apostolica dette fine all’esperimento, anche se le ricerche continuarono, con scarsi esiti, ad opera di un tal G. Poety e da G. Capalti, quest’ultimo civitavecchiese.
Sempre dal Volume del Rinaldi, da cui abbiamo tratto tutte le puntuali informazioni sul Defizio del piombo e su quant’altro tratteremo sulle miniere del ferro (marcasite), nella certezza di divulgare tali note agli appassionati della interessante cultura locale attraverso le pagine del sito di Tiburzi.
“Il Viterbese Stefano Camilli, nel 1820, a conclusione della sua lunga esposizione, più volte citata, elenca le ragioni della chiusura delle miniere di galena. Mette in risalto l’ignoranza in materia degli esperti e degli operai ed accenna a degli episodi, quasi leggendari, riguardanti agenti stranieri che minacciarono di morte il direttore delle miniere. Ecco come racconta il Camilli: “si annuncia, che un tal inglese intraprendente delle miniere di Cornovaglia, dopo aver tentato indirettamente e senza frutto, di distogliere la Rev. Camera da tal impresa si rivolgesse al Direttore delle miniere della Tolfa, e presentando al di lui petto una pistola una sera in Roma nella Via San Silvestro, gli intimasse o di accettare 20.000 zecchini a far desistere il governo dalle escavazioni, o di aspettarsi due palle in petto (sic. proprio due palle…).- Il Direttore fatti i conti si appigliasse al primo partito ed in tal guisa andasse a mancare all’Inghilterra un concorrente formidabile al commercio del di lei piombo. Nel 1826 il Marchese Vincenzo Calabrini, direttore delle miniere di allume, tentò di nuovo di sfruttare la galena, ma anche questa iniziativa ebbe vita molto breve. Negli anni ’50 del nostro secolo, la società B.P.D. di Colleferro, nelle ricerche della pirite, riscoprì le vecchie miniere della galena e dell’argento, ritrovando le antiche gallerie e pozzi. In un cunicolo di questi, i moderni minatori trovarono ancora intatta una condotta fatta con tronchi di farnia, bucati all’interno, che servivano per portare fuori l’acqua sorgiva.” (Vol. Le Lumiere pagg. 95 - 97)
Il “Tiburzi”, dopo aver aggirato poggio Ombricolo, scesa una collina passando attraverso una staccionata abilmente chiusa ed altrettanto abilmente aperta da mastri genieri, raggiunge il suggestivo opificio del piombo. Ancora non completamente rudere, mantiene intatte le arcate della condotta dell’acqua, a foggia di acquedotto romano, gli ambienti/vasche per la decantazione del minerale pestato e tutte le mura perimetrali. Alcune piante di fico, cresciute un po’ ovunque, conferiscono all’insieme un aspetto pittoresco, dando idea di presenza umana. Qui, esplorando il suolo, riusciamo a raccogliere ancora alcuni frammenti di galena dispersisi dal processo di sottrazione del metallo. In prima istanza, questi frammenti, appaiono insignificanti schegge di roccia turchina ma a casa, dopo breve essiccazione, risplenderanno di un argento intenso. Il pensiero non può non essere rivolto agli operai, che hanno qui eretto, nel millesettecento, tra tanto disagio quell’enorme complesso, al loro incessante e pesante lavoro che hanno inutilmente dispensato ed alla successiva delusione per la perdita del posto di lavoro, dopo che l’impianto fu chiuso.
A noi non resta che indicare la formula chimica e le caratteristiche della galena:
“Solfuro – Pb S – durezza da 2 a 2,5 – peso specifico 7,5 – cristallizza nel sistema monometrico ed in presenza di acido cloridrico sviluppa idrogeno solforato con odore di uova marce”
… e riprendere il cammino.
Risaliamo il pendio erboso, ammantato di borrago officinalis, per intercettare il sentiero che ci porterà alle sorgenti del Marangone. La ricca e bassa vegetazione nasconde gelosamente il luogo ove il torrente geme i suoi primi vagiti. Ma già, nei pressi, si ode lieve lo scorrere delle sue prime acque native, serpeggiare tra enormi macigni bianchi, per poi manifestarsi nel pieno di tutta la sua bellezza e maturità, con i suoi ben definiti argini, fiancheggiati da secolari alberi riparali. I sentieri attorno al torrente sono incantevoli, tra cui emerge il noto “Trocchetto”, segnato dall’alto cordolo di sassi a secco. E noi siamo grati soprattutto al temporaneo “permafrost”, che gelando l’acqua piovana, ed un po’ ovunque, quella sorgiva diffusa, ci consente di camminare sopra, indenni. Di pestare la rigida e modellata mota dai giganteschi zoccoli della “maremmana”.
Abbiamo qui già dimenticato i rigori della sferzante tramontana. Il gruppo si libera dei pesanti piumoni. L’involontario spogliarello consente l’identificazione di alcuni!
Intanto si notano, intorno agli argini del Marangone, alcune piante di galanthus nivalis, con le sue ripiegate ed umili bianche campanule, già ma lui, fiore invernale, è ben noto perchè buca la neve indenne. Ma il dolce clima ha già incoraggiato, anzitempo, altre infiorescenze primaverili. Il crocus sativus (fior di zafferano) e la spettacolare smilax aspera, bella ed ammirevole, con le sue bacche rosso rubino riunite in grappoli, finché non diviene “stracciabrache” salsapariglia nostrana. Ed allora perché non tuffarci un po’ nella mitologia greca? Croco (anzi Kroke) era un bel giovane che amava la ninfa Smilace (Smilax Aspera) ma non era corrisposto. Gli Dei tramutarono allora Croco in una pianta ed in seguito anche la ninfa. Secondo altre fonti i due morirono insieme amandosi.
Nel sottobosco si rinvengono già i primi asparagi (asparagus acutifolius) ma viene anche raccolto da Nicola un rafano dal fusto “serpiforme”, raro in questi tempi. Ad Allumiere i turioni della pianta si chiamano abboiole, termine forse ereditato dai francesi durante la loro dominazione. Tamus comunis – tamaro in italiano.
Intanto il Gruppo continua compatto la lieve discesa, verso le cascate del Marangone sotto Tramontana, doppiando il villaggio del Ferro ma, in prossimità della torre di Castrum Ferrrariae, una divergenza non politica, genera due fazioni, una della riva “destra” ed una della “sinistra” ed io per caso mi ritrovo in quest’ultima. Involontariamente, innocente, per questo vengo brutalmente inveito da entrambe le fazioni. Ma un invitante guado riporta pace nel “parlamentino”! Fatichiamo non poco a superare interminabili sbarramenti di ogni tipo, creati un po’ ovunque, senza peraltro trovare “passine”. Varchi che la normativa forestale prevede a cura dei proprietari terrieri. Troviamo invalicabili cataste di frasche sul sentiero dell’ultra millenario “Trocchetto”. Sbarramenti di filo spinato, di traverso al torrente, evidenti impedimenti su altri viottoli, che immediatamente il rovo colonizza, creando muri invalicabili. Intanto superiamo l’ingresso dell’ultima miniera del ferro, ancora aperta, ove sulle pareti interne notiamo meravigliose manifestazioni cristalline.
Giungiamo finalmente su dolci pendii privi di avversa vegetazione. Sgorga qui, in aperta campagna, libera l’acqua un po’ ovunque. Ovunque sorgono guinze, guinzoni, ruscelletti “estemporanei”, non trattenuti dalle radici della sacrificata vegetazione. Avanti a noi piccoli disastri idrogeologici frane e smottamenti del terreno. Soltanto la nostra bella bianca mucca “maremmana” riesce qui a sopravvivere. I butteri, che una volta dividevano il proprio destino con questo bovide, sono ormai scomparsi. Ovvero più che scomparsi hanno sostituito il loro cavallo muschiato con insignificanti fuoristrada e raggiungono i luoghi di pascolo, saltuariamente, dai loro paesi. Ma la vacca dalle grandi corna, è ormai a rischio di estinzione (sic …) perchè non può competere, con la sua carne, sul mercato, con quella delle altre razze di importazione. Le saporitissime carni della maremmana, genuine e ricche di sali minerali, assorbiti dal suo pascolo, hanno poche richieste. Molto più dure delle altre, perché, per nutrirsi, la bestia è costretta a risalire erti pendii. Poi questa ama vivere allo stato brado, il che comporta riproduzione e parto spontanei all’addiaccio.
Questa sacra e sapiente bestia vive sempre all’aperto, sopportando climi rigidi, terreni paludosi e malarici. Pur nutrendosi di un pasto frugale, si ammala raramente. Riesce a tollerare temperature torride, periodi siccitosi, sotto la costante insidia della puntura di insetti molesti che non le danno mai tregua.
Se questo bell’animale non viene protetto, prima o poi scompare dalle nostre campagne. Per poterlo rivedere dovremo osservare i quadri del nostro grande Giovanni Fattori. Pittore macchiaiolo e maremmano!
Traversiamo con difficoltà grossi ruscelli per raggiungere le cascate del Marangone. Qui ci accampiamo per il sacro pasto. Ma qualcuno ha pensato bene di giungere senza niente al seguito. Ma il dolce ridosso, la vista amena sulle cascate, muovono la pietà e commiserazione del Gruppo. Poi cominciano a girare dolci un po’ ovunque, e poi le dolci e poetiche note del nostro Emilio, che sa cogliere toccanti spunti dalla vita quotidiana. Ma già una contaminante allergia ha colpito gli occhi di alcuni, ovunque è ricorso a fazzolettini di carta, per asciugare involontarie lacrime di vetro.
Ore 14.00 si riparte, ricalcando per un tratto, il percorso di andata.
Giunti sul guado una maremmana, in avanzato stato di gravidanza, si pone avanti al nostro passaggio con pretese di avanzare diritto di precedenza. Ma il cinghiale (sottoscritto, ndr) adeguatamente la “para”, tra le evidenti proteste ed i lamenti continuati di questa, e finalmente, scorso sul guado l’ultimo Tiburzi, con un imperante muggito, la bestia richiama tutte le sue altre compagne, di varia età, che all’unisono si alzano dal prato per seguirla sull’altro versante del fosso.
E’ quella la capogruppo, la madre di tutte, è lei che decide quando e dove portare la mandria. Esercita nel branco, quello stesso mestiere che io vo’ svolgendo nel Tiburzi. Risaliamo su verso “Castrum Ferrarie”, identificabile ormai dalla superstite Roccaccia medievale, ove più antichi ruderi del villaggio giacciono più sotto, parzialmente visibili, interrati o coperti dalla fitta vegetazione.
Il nome attribuito al luogo sta ad indicare gli esiti della romanizzazione, operata fin dal terzo secolo a. C.. Ma gli etruschi, qui, avevano già eretto un villaggio, per sfruttare le prossime vene del minerale ferroso. Ma il villaggio non mi risulta indagato da alcun archeologo.
La incipiente tramontana ed il mugugno di alcuna, ci costringe a tirare di lungo e rimandare la visita del luogo a data più felice da destinare. Quindi via decisi verso il Villaggio del Ferro.
Ma ogni volta che ritorno su quel posto mi accorgo che il suo aspetto peggiora sempre più. Ambienti trasformati in stalle, muri divelti, cataste di legna a sbarrare il passo. Anche questa visita è saltata.
Voglio ricordare il Villaggio del Ferro così come si presentava ai bei tempi, caro vecchio amico morto anzitempo. Il Villaggio è posto ai margini del bacino minerario dei Monti della Tolfa, a poca distanza dal primo tratto del corso del Marangone. Da lì sotto gli etruschi, con le loro imbarcazioni trasportavano la marcasite fino ai piedi della “Castellina”, creando tratti di torrente navigabile per mezzo di apposite chiuse. Da un documento chirografo dell’Archivio della Camera Apostolica si legge di autorizzazioni a poter scavare, sui Monti della Tolfa “miniere d’oro, di argento, di rame, di piombo, di ferro, di pietre lustrali, di talchi, di cristalli di monte, di diamantini e di altri minerali”.
Nei nostri monti sono un po’ presenti tutti i minerali, ma essi sono particolarmente ricchi di minerali di alluminio, ferrosi e di piombo (alunite, marcasite, pirite, galena argentifera e blenda). Il bacino minerario tolfetano, era già conosciuto fin dai tempi preistorici per la selce di Ripa Maiale; per il piombo dall’uomo dell’era del bronzo, e dagli Etruschi, per il ferro (pirite e marcasite e forse anche per l’alunite). Così, fioriscono, come funghi, tutt’intorno villaggi etruschi circostanti (Monte Rovello, Elceto, Luni sul Mignone, San Giovenale, Piantangeli, Tulfa, Coste del Marano, Ferrone, Castellina - Castrum Vetus sul Marangone- Pian de’ Santi, Pian Conserva, Codata delle macine e forse Mantura – Monterano-).
Ma in maniera intensiva i giacimenti locali, in particolare di pirite e marcasite (solfuri di ferro al 55%),...
“Marcasite - solfuro di ferro Fe S/2 – durezza da 6 a 6,5 peso specifico 4,9. Cristallizza nel sistema rombico, ridotta in polvere brucia alla fiamma sviluppando anidride solforosa. Se sfregata, produce scintille (come la pirite), utilizzata per questo dall’uomo per produrre fuoco”
.... sono sfruttati, dal 1940, ad iniziativa della nota Società Bombrini Parodi Delfino (fosso delle Cariole e di Pian Ceraso). Il complesso minerario e siderurgico della Roccaccia era posto su due livelli. Uffici ed altri capannoni in superficie, ed altri in cruciali ambienti posti più in basso. I pozzi scendevano nelle viscere della terra per ben 115 metri di profondità, e dove finiva uno, ne cominciava un altro. Raggiungevano questi pozzi giacimenti minerari di un certo spessore, con ascensori, impianti dell’aria compressa, per mettere la funzione dei martelli pneumatici, cavi per l’energia elettrica e tubi per estrarre acqua sorgiva. Lo sfruttamento minerario procedette alacremente per quindici anni, ma, nel 1959, la cava dalle miniere, a causa degli impianti obsoleti, viene dismessa. Le nuove normative in materia di sicurezza di lavoro prevedono investimenti non più competitivi per il prodotto estratto. Delle opere sul posto, sono rimasti soltanto evidenti resti del frantoio e del silos.
Completiamo queste note sul territorio riportando un grave un fatto di cronaca nera, accaduto presso gli uffici della miniera, direttamente dalle pagine della Domenica del Corriere. L’episodio si verificò intorno agli anni ’50, e fu oggetto di particolare attenzione della cronaca di stampa italiana.
Vanì, 17-02-2009
BY CAMELIA. & ACE
P.S. A questi link troverete 3 nuovi regali del ns Emilione : "L' Alba" , "Er Computere" , "Gli Sposini"