Oggi è presente una sparuta rappresentanza del “Tiburzi”, gente rivestita e calzata più che adeguatamente, piumoni, sciarpe, guanti e berretti da alta montagna. Forse quindici o sedici “prodi” fanno capolino dalle vetture intorno alle 8:40 su viale Berlinguer . Una rigida e tesa tramontana, che spirava già negli ultimi palpiti del 2008, ha smontato le iniziative dei più. Poi una sorta di influenza maligna ha decimato la città, presentandosi breve con febbri elevate, con raucedini e tosse anche per due o tre settimane di seguito, od intestinale. E c'è chi, del Tiburzi”, ha già “smarcato” tutte e tre le forme virali! .
Peggio era andata alle 8.25, quando io e Lino, giunti sul punto di ritrovo, non avevamo scorto nessuno all'appuntamento, pensavamo ad un disguido! Ma poi, pian piano, i più ardimentosi sono sopravvenuti. Questi imperterriti, fermamente decisi di portarsi, a tutti i costi, al Parco di Vulci, saranno premiati dalla giornata di cielo sereno e dall'esiguo numero di partecipanti, che consente un rapporto ottimale di gruppo.
Giunti avanti il piazzale d'ingresso del Parco ancora una gradita sorpresa, biglietteria chiusa, per l'esultanza dei più tirchi. Anche se già molti di noi, data la veneranda età, sono esentati dal ticket di ingresso ai musei. Soldi a parte risulta inammissibile che un luogo particolare come Vulci, sia chiuso la prima domenica dell'anno. A darci la bella nuova un addetto della cooperativa “Macstarna”, che gestisce scavi, ingressi e visite del Parco. Ci dice anche che non è possibile, oggi, girare per i sentieri, per la responsabilità civile che fa capo a lui. Gli chiedo soltanto se ci consente di arrivare fino alla porta “Ovest”, permesso accordato! Maledetta burocrazia! Poi, mentre a ridosso di un elevato muro in “opus reticulatum”, stavamo ripassando un po' di storia, rieccoti il guardiano di cui sopra, che mosso a compassione da tanta caparbietà, viene a rilasciarci autorizzazione verbale per addentrarci nel Parco, raccomandandoci però di non perderci. No proprio a Vulci ... speriamo di no!.
Lo scrittore inglese George Dennis (1814-1898), dimenticò d'un colpo tutti i disagi del viaggio a cavallo, quando nel 1842 giunto al castello della Badia vide il ponte, la fortezza medievale, la torre rosso scura protendersi verso il cielo azzurro. Quando udì il sordo scrosciare delle acque del Fiora entro il suo letto angusto e profondo. Quando vide, verso sud-ovest i ruderi della città emergere da una variopinta campagna tra campi di fieno giallo ocra e fiori spontanei. E non si preoccupò più neanche tanto della malaria, quella più feroce, che regnava in quella landa arida, abbandonata, ormai unico regno delle vacche maremmane con le corna ampie a mezza luna. Il latifondo, dopo che il Console Tito Coruncario, conquistò la Lucumonia (280 a.C.), deportati i maggiorenti in Roma, viene posto sotto amministrazione dei “Quattuorviri Iure Dicundo”. Eppure il nome della etrusca Velk Velka, trasformatosi pian piano in Volcia, Bulcia, giunge a noi con il termine “Voce”. Pian di Voce è chiamato l'altipiano ove sorgeva la lucumonia. E “Voce” qualcosa ricorda nella radice la sua antica denominazione, quando i suoi fasti la ponevano, nel mondo etrusco, come la più vasta, temibile ed importante città/regione Rasenna.
Il suo territorio si estendeva dal Monte Amiata fino a confinare con quello della Lucumonia di Chiusi, entro la sponda destra orografica del Fiume Paglia. Poi giù fino ad Orvieto ed al Lago di Bolsena. Delimitato a sud, dall'area tarquiniese, dal fiume Marta, ad ovest comprendeva il Tirreno antistante fino alle isole dell'arcipelago toscano di Giannutri, Giglio, Montecristo ed il promontorio dell'Argentario. L'acropoli, racchiusa entro una elevata cinta muraria, era vasta circa 140 ettari. Cinque porte urbiche ne consentivano l'accesso, mentre la principale, quella ovest era protetta da un rivellino - “antesignano” di quelli poi realizzati, nel corso del medioevo dalle più sofisticate e fortificate città europee - che non permetteva agli arieti romani di sfondare le robuste porte lignee. Ma sicuramente i romani sottomisero Vulci con ben altri mezzi ! Distante circa 15 chilometri dal mare, disponeva di un notevole porto, posto sulla foce del suo fiume, il Marta “, conosciuto oggi come le “Murelle di Montalto” ma ai suoi tempi chiamato Regisvillae (villa reale?). Mentre sotto la porta sud-est un imponente approdo fluviale sul Fiora, entro cui erano attivi empori greci e di altre nazionalità, consentiva alla città un diretto commercio con l'Italia meridionale ed insulare e con tutto il bacino del mediterraneo. Ma non era tutto, in direzione “est” “nord-est”, era ben collegata, attraverso vie di comunicazione, con il bacino del Tevere, che le permetteva scambi commerciali con il nord Italia, il Nord Europa, l'Adriatico ed i paesi dell'est. Per queste sue particolarità in Vulci, abili ceramisti greci si erano trasferiti, lasciando Atene, Corinto, ed altri centri ellenici, per aprire qui laboratori di ceramica che, in seguito, crearono validi professionisti locali. Tutti questi buoni motivi devono aver suscitato le invidie e mire di Roma. Eppure Vulci non era poi stata tanto nemica di Roma in passato. Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, quarto imperatore romano, insigne storico di studi etruschi ed altro, ricordava al suo popolo che il 6° re di Roma, Servio Tullio, non era altri che quel Macstarna, eroe Vulcente, che quando fu nominato re (578-535 a. C.) aveva impostato innovative linee politiche nella società romana. Eppure Macstarna proveniva da una classe servile, ma il suo coraggio, il suo valore in guerra aveva fatto si che i suoi prìncipi vulcenti Aulio e Celio Vibenna, lo avessero eletto loro generale.
Ma la certezza che il 6° re di Roma, Servio Tullio, fosse identificato nell'eroe vulcente Macstarna ci viene fornita da alcuni affreschi della tomba François, scoperta nel 1857 c.a. soltanto.
Nell'undicesimo secolo d. C. Vulci scompare dalla faccia della terra. Le ultime fasi di vita della lucumonia risalgono al X secolo d. C., dopo un invasione di Saraceni che ebbe, come conseguenza, una sanguinosa battaglia in cui vincitori e vinti si distrussero a vicenda. Poi di Vulci non si saprà più nulla, se ne perdono tracce storiche ed ubicazione. Sedimenti travertinosi nascondono per millenni le tracce della città su tutto il territorio. Poi nel 1700, dalle necropoli, vengono alla luce numerose tombe villanoviane affioranti e, nel 1800, un contadino, arando i campi, sollevò con l'aratro una grossa pietra sotto cui era una enorme tomba ricca della sua originaria stipe votiva, dando inizio alla caccia al tesoro. La qualità e quantità dei reperti venuti alla luce la “dicono” lunga e permettono di identificare quel “Pian di Voce” nell'antica città di Vulci. Gli scavi clandestini dei “tombaroli” accorsi da ogni dove si susseguono, a cui si aggiungono quelli di Luciano Bonaparte, fratello dell'imperatore, che risollevano le sue scarse “finanze” con la vendita dei reperti archeologici. Il Bonaparte fu nominato dal papa principe di Canino, ricevendo in feudo, tutto quel territorio. Si racconta che il principe giunse al punto di far distruggere copie di vasi di squisita fattura, pur di incrementare il valore di un solo esemplare. Si determina così una dispersione del patrimonio archeologico della località, che viene sparso dai mercati nei musei di tutto il mondo. I reperti vengono acquistati ignorandone la provenienza, il danno prodotto alla storia di Vulci risulta incommensurabile, ma in alcuni casi l'occhio esperto dell'archeologo identifica, ancora oggi, l'appartenenza degli oggetti alla lucumonia vulcente e ne stabilisce perfino la necropoli di provenienza.
Si pensi all'utilità degli indizi storici che emergono dagli scavi sistematici nelle necropoli, vere conferme storiche per gli studiosi. Ad esempio la certezza che l'eroe vulcente Aulio Vibenna fosse vissuto realmente, si ebbe col ritrovamento di una sua dedica, rilasciata al tempio di Apollo di Veio (Portonaccio) durante una visita!
Nel 1840, morti il Bonaparte e sua moglie, il feudo caninense passa ai principi Torlonia, questa importante famiglia italiana deve un po' della sua ricchezza agli scavi archeologici effettuati nel territorio Vulcente. I Torlonia incaricano per le ricerche archeologiche sul territorio, l'ing. fiorentino François e l'archeologo Noel des Vergesr. I due setacciando la necropoli di Cavalupo, si imbattono nella più ricca e significativa tomba che il mondo etrusco abbia mai partorito, ventisette metri di dromos, camere articolate, riccamente dipinte, stipe votiva adeguata (andata dispersa).
La presenza di un grosso leccio su un costone di roccia insospettì il François, l'albero aveva piantato le radici nel dromos di accesso della tomba. In quella parte dell'ipogeo composto da un vestibolo, che presumibilmente fu la prima tomba della Famiglia Vibenna, progenitrice di Vel Saties, signorotto vulcente, che fece prolungare ed ampliare la tomba di famiglia. L'importanza di questa tomba è posta negli affreschi, realizzati da insigni pittori, da ciò che essi rappresentano. Sono infatti qui dipinti, su un lato dell'ipogeo “Macstarna”, il futuro re di Roma “Servio Tullio”, proteso a conquistare il potere su Roma. A fianco delle immagini dei personaggi dipinti, alcune iscrizioni ne permettono l'identificazione. Macstarna, alias Servio Tullio, è rappresentato mentre libera dalle catene Caile Vipinas, prigioniero di nemici provenienti da Volsinii, Sovana e Falerii, tra cui anche Cneve Tarchunies (identificato nel 5° re di Roma Tarquinio Prisco), mentre un altro gruppo di eroi, guidati da Aule Vipinas, impegna un aspro e vittorioso combattimento. Dall'altro lato della tomba eroi omerici, appartenenti al mondo mitologico, tra cui spicca Achille nell'atto di colpire un troiano, mentre Aiace Telamonio ed Aiace Oileo conducono nuove vittime al fiero compagno. Ed è chiara l'analogia rappresentata nei dipinti: il popolo Vulcente domina i suoi nemici rivali (di Volsinii, di Sovana e di Falerii) per la conquista del trono di Roma, così come Achille, nel vendicare il suo amico Patroclo, sospinge l'esercito greco verso la vittoria sulla città di Troia. Il dominio dei vulcenti sulla città di Roma é attestato da varie cose, tra cui la denominazione del luogo ove fu trovato il teschio di Aulio Vibenna, il “Campidoglio”, derivante dall'unione delle parole “Caput Auli”. Il Celio, noto colle romano, dedicato da Macstarna all'amico Caele Vipinas.
Il Parco archeologico di Vulci non dispone più degli affreschi della tomba François, questi fatti staccare dalla famiglia Torlonia prima dell'unificazione italiana, per trattati e compromessi, sono ormai di loro proprietà! E non sono neanche visitabili. Ma il Parco riserva sempre nuove sorprese. Ed ecco avanti la monumentale porta ovest etrusca, con rivellino, la ricostruzione di tombe alla “cappuccina”, di tombe a cassa, ove sono deposti scheletri in plastica, di cui uno con uno squarcio sul teschio, a significare il ferimento, mortale dall'alto, nel momento in cui l'uomo stava tentando di superare le imponenti mura. La ricostruzione della porta monumentale “romana”, dietro quella urbica etrusca, sulle cui strutture sono state applicate lastre in marmo originali. Il lungo e suggestivo decumano romano in tefrite, su cui si affacciano il tempio etrusco, la villa romana con criptoportico, il Mitreo, altri edifici di non chiara destinazione, il sacello di Ercole. Il decumano portato alla luce fino al fiume Fiora, appare in ottimo stato di conservazione. Alcune diramazioni di questo raggiungono il porto fluviale etrusco, altre oltrepassano il fiume oltre Ponte Rotto e proseguono sui colli circostanti. Il Porto anch'esso in ottimo stato di conservazione, le cui strutture scendono fin sotto il livello del Fiora. C'è poi avanti il sentiero naturalistico, che costeggia il Fiora, realizzato nel fitto bosco di macchia mediterranea. Ma sarebbe sufficiente scavare sotto il livello di calpestio, due o tre metri, per portare alla luce altre interessanti vestigia, avvertite dal sordo rumore dei passi sui viottoli. Vedere poi il lago Pellicone in piena è davvero uno spettacolo entusiasmante, così come entusiasmante è osservare il Fiora in piena, discendere la cascata giù nel ripido letto di lava basaltica, mentre dalle alte coste sporgono vegetazione, enormi stalattiti travertinose, create dal fosso delle Cento Camerelle, dirottato qui da Canino, per riempire il fossato difensivo del castello della Badia.
Oggi il nostro impegno escursivo termina qui. Abbiamo percorso lo stradone costeggiato dall'acquedotto romano, che a monte del castello captava l'acqua per la Vulci “romana”. Abbiamo lasciato alle nostre spalle le necropoli dell'Osteria e di Camposcala. Così come abbiamo trascurato a sud la necropoli di Pian di Maggio, ove il brigante eponimo del nostro Gruppo, ha ucciso il fattore di Guglielmi, Nazzareno Gabrielli, reo di non avergli comunicato, un giorno, lo spostamento dei carabinieri, che costò la vita all'amico del Tiburzi, Biagini. Il resto della giornata, data la forte tramontana, viste le difficoltà incontrate nel Parco di Vulci, lo dedichiamo alla visita degli ospitalissimi Pianiano e Cellere, paesi del brigante, con pranzo al parco sul torrente Timone. Nel pomeriggio ci porteremo sotto la suggestiva cascata del fiume ed entro la grotta ove Tiburzi, si rifugiava quando giungeva nei pressi.
Rinviamo quindi ad una successiva uscita nel Parco, ove purtroppo le emergenze etrusche, giacenti sotto vestigia romane, vengono messe in luce con molta tranquillità (strade, templi, porto e monumenti), che per noi è già tanto. Poi effettueremo la visita alle necropoli di Cavalupo e della Polledrara. Alle tombe François”, della Cuccumella, Cuccumelletta, delle Iscrizioni, del Sole e della Luna ed a quanto di nuovo verrà portato alla luce..
Vanì, 05-01-2009TORNANDO, UN SALUTO ALLA GROTTA DEL TIBURZI | |
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BY VANI' & GUALCO