Se qualcuno di noi mettesse in dubbio l’esistenza del fato comincerà ad avere qualche sospetto nel verificare che il “Tiburzi” fece la stessa uscita sulla “Castellina” il 18 gennaio del 2004 e che in quello stessa occasione beccò l’acqua, come nella giornata di ieri. A dire il vero, nel 2004, in un tratto di strada di poche centinaia di metri fummo sommersi da una autentica valanga d’acqua.
Prima di procedere a “romanzare” la storia della “Castellina”, ritengo utile riportare un resoconto piacevole e significativo di una ricognizione, effettuata in solitario, su quel luogo, nell’ottobre 1995, dal Sig. Fabrizio Pirani, già presidente dell’Ass.ne Archeologica “Centumcellae” di Civitavecchia.
La “Castellina” nel ricordo di Fabrizio Pirani
”Nei giorni scorsi, sull’onda dei ricordi e della nostalgia suscitata in me dal vocabolo “La Castellina”, un toponimo così a lungo attuale nei decenni scorsi, ho pensato di ripercorrere i sentieri di un tempo così familiari, desideroso di constatare le mutazioni verificatesi nei luoghi dell’intensificata attività umana di soggetti non cultori del passato, ma guidati da interessi esclusivamente economici.
Intenso è stato il mio turbamento fin dalle prime battute di questa ricerca: la costruzione dello svincolo di Civitavecchia sud sull’autostrada per Roma ha costituito un’inseparabile barriera da aggirare risalendo il letto del torrente ed utilizzando piste camionali che serpeggiano lungo la base dell’altura, meta dei miei passi.
Un gregge di pecore in trasferimento invano si è opposto alla mia decisione di procedere, contrastandomi con il polverone sollevato dal suo passaggio e premendo con la massa in continuo movimento. Inutilmente ho volto intorno lo sguardo alla ricerca delle figure arcadiche di pastori coperti di pelli e cappellacci che conoscevano gli insulti di tutte le stagioni. Essi erano stati sostituiti da un solo individuo, che procedeva in automobile chiusa, lasciando ai cani l’umile compito di inquadrare e dirigere i quadrupedi belanti.
Superato con brevi e cortesi trattative il divieto di passo da parte degli occupanti il vecchio casale che sorge nei pressi e, placate le proteste velleitarie di una muta di cani, la cui potenza delle ugole era inversamente proporzionale alle loro dimensioni, scavalcata una prima cinta, mi sono affacciato sulla gibbosità che precede l’altura terminale e che ricordavo sede di un nutrito gruppo di tombe sia a camera che a fossa, parte integrante della necropoli sorta alle basi dell’abitato.
Grande è stata la mia sorpresa nel constatare che sul suolo scosceso e pressoché privo di vegetazione erano scomparse tutte le tracce di dette tombe, sostituite da mucchi di pietrame risultati dagli interventi di mezzi meccanici per sgomberare il magro terreno da quanto ostacolasse il passaggio e la sicurezza del bestiame allevato.
I miei occhi si volgevano intorno nella vana ricerca di un albero di lentischio, un tempo a me ben noto perché ai suoi piedi era stata scoperta dal Prof. Bastianelli, una tomba a fossa usata per il seppellimento di un guerriero di sesso femminile, che i pochi resti rinvenuti indicavano di un’altezza smisurata. Il rumore provocato da un trattore operante per la rimozione del pietrame da un’area adiacente al fosso delle Guardiole accompagnava sarcasticamente la mia delusione ed il mio sconforto.
A memoria della continuità e stabilità del mondo da me conosciuto, restavano i cirri nell’azzurro del cielo!!!
Giunto alla parte rivestita da una folta vegetazione di cespugli di lentischio che avviluppavano i tronchi corrosi degli ulivi superstiti della piantagione Alibrandi, mi sono inoltrato, scrutandone le ombre, alla ricerca dei resti delle mura urbane, tante volte contemplate e misurate valutandone l’andamento e gli accorgimenti usati per sopperire alle discontinuità del terreno a ridosso delle stesse.
Purtroppo non ho potuto rinvenire né i parallelepipedi di scaglia, né traccia delle colmate di macigni che riempivano i vuoti retrostanti, forse nascosti dall’intrico della vegetazione.
Procedendo nella salita lungo le piste, segnate dai (NdR: numerosissimi) bossoli lasciati dai cacciatori - che frequentano numerosi la zona, a giudicare dai colpi sparati – mi sono avvicinato al culmine per rimirarne il paesaggio che lo sviluppo della vegetazione spontanea ha ormai frazionato, con il subentrare delle costruzioni fino alle ridenti pendici erbose che giungono al mare.
Mi sorreggeva la fiducia di poter identificare i punti fermi che caratterizzavano i luoghi: i ruderi della cosiddetta “casetta dei cacciatori” e, nelle vicinanze, la “cisterna”.
I primi si sono rivelati sotto forma di una parete perimetrale, sormontata ed avvolta dalla ramificazione di una pianta di fico che nello sbiadito stato vegetativo denunciava l’insufficiente alimento di acqua recata dalla pioggia. Quanto appare poi della cisterna, asportati o rimossi i blocchi di nenfro aggettanti che ne formavano i bordi e un breve fossato pressoché ricolmo per effetto dell’interramento dovuto a fenomeni naturali ed agli interventi dei rari visitatori che hanno irriso del monito del cartello ancora in sito per imporre il divieto di gettare i rifiuti. Anche qui un magro fico che stende le sue gracili braccia per proteggere con la sua ombra quanto ancora sussiste.
Seduto sui blocchi di scaglia che giacciono intorno, mi sono a lungo trattenuto, rievocando col pensiero deluso, voci e volti degli amici di un tempo che con me si erano aggirati sui luoghi, punteggiando con lieti richiami i rinvenimenti che andavano facendo ed il risuonare dei colpi di piccone degli scavatori, che tracciavano nel terreno i solchi alla ricerca di eventuali opere non affioranti in superficie.
Protagonista, ancora una volta, il prof. Bastianelli: lo rivedo con alcuni altri, tra cui mi è caro ricordare mio cugino Fernando Cordelli, mentre un giorno si svolgeva con la solita passione dei presenti la discussione su alcuni frammenti di “cocci” trovati in prossimità della porta sud dell’abitato. Il professore non partecipava, ma lo vidi ridurre sempre più la sua attenzione, fino ad assentarsi, indagando con lo sguardo al suolo, nell’automatica ricerca di reperti di qualche valore. Muovendosi, borbottava qualcosa di cui non era possibile intendere il significato, ma che indusse Cordelli a commentare: “vedi, Bastianelli sta parlando con gli etruschi!”
Questo è uno dei tanti aneddoti che affiorano spesso nella mia memoria e che ricordo e riferisco con particolare simpatia, senza venir meno al profondo rispetto ed all’amicizia che mi legava al professore.
Il tempo era scandito dai rintocchi del campanaccio che guidava una dozzina di capre bianche e marrone di varia taglia, che protestavano contro l’intruso che turbava il loro quieto migrare alla ricerca dello scarso pascolo, seguendone in distanza e con sospetto i movimenti.
Osservavo gli ulivi dinnanzi a me e, in questa atmosfera ormai carica di ricordi, rivedevo ancora nella mente il Prof. Bastianelli, presente con alcuni altri nel corso di un ennesimo sopralluogo, che ci indicava i resti di un grande orcio di terracotta grigio nerastro che aveva scorto tra le piante disposte a corona, quasi a cingerlo e proteggerlo quando ancora era intero. I resti erano in prossimità della “casetta dei cacciatori”. Sulle pareti interne all’orcio si scorgevano tracce di verderame, onde la supposizione fatta dallo stesso Bastianelli che si trattasse di un vaso utilizzato da scavatori abusivi in epoca indeterminata, per raccogliere il risultato delle loro ricerche, e poi andato in frantumi.
Mi lasciai trasportare ancora una volta dall’onda irrefrenabile di antiche immagini e quando, d’improvviso, mi riscossi sostituivano le ombre dei miei compagni di un tempo, tre cavalli dal lucido manto sauro che, con indolente passo felpato, comparivano e scomparivano tra le macchie, volutamente ignari del significato della mia presenza fra loro e occultati solo ad alternare la ricerca del cibo con placide soste sotto il tiepido sole.
Pieno di malinconia per il contrasto tra quella che era stata la speranza di ravvisare testimonianze che mi erano care e la crudezza di una realtà irreversibilmente più squallida, ho ripreso la via del ritorno, curando solo di evitare gli ostacoli creati dai rami mossi dal vento e dalle pietre frananti sotto i miei passi.
Fabrizio Pirani, presso la “Castellina”, un giorno di ottobre del 1995.
Arduo appare il compito di ricostruire la storia del villaggetto sulla “Castellina”, ove, scarse fonti dirette, rare tracce di fondamento di infrastrutture, giungono fino a noi. Soltanto le tombe rinvenute a nord ed a sud dell’insediamento, riescono a fornirci, con la loro architettura e repertazione, validi elementi di stima ed indizi di giudizio. Neppure possiamo ricorrere alle fonti indirette, documenti o trattati di autori latini sul sito o di storici locali. Ci troviamo quindi di fronte ad un anonimo insediamento umano posto su una collina a 130 mt. c.a. sul livello del mare, alle sue necropoli. Il colle dominante con la sua elevazione un vasto tratto di costa, è lambito da un torrente, dal corso piuttosto regolare, che dai Monti della Tolfa, sfocia in mare poco avanti, ove era stato costruito un piccolo scalo.
Del villaggio etrusco, ormai comunemente detto la “Castellina”, disponiamo soltanto di scarsi ruderi affioranti dal terreno, abbandonati all’incuria dell’uomo, le tombe, peraltro, più volte saccheggiate nel corso dei millenni, hanno restituito scarse stipi votive, depositate presso il locale museo. Ma ciò di cui disponiamo risulta già sufficiente, per tracciare e comprendere la storia di questa nostra “Castellina”, sul perché della sua ubicazione, presupposti e ragione d’essere. Fondamenti economici e infrastrutture su cui il villaggio aveva posto le basi. E questo è possibile grazie a deduzioni analogiche, prendendo a riferimento altri centri etruschi simili, coevi.
Per portarsi sul colle della “Castellina”, ormai, occorre traversare abusivamente alcune proprietà ma, al limitare del bosco, superata una passina, si ritrova, ancora ben battuta tra il bosco, la strada che collegava l’antico abitato collinare al suo torrente (il Marangone). Questa via di comunicazione superava un guado pressappoco ove ora c’è il ponte in cemento da noi traversato. La stessa strada costeggiando la sponda destra del torrente, si portava verso la rada del porto costruito sulla sua foce, per diramarsi poi parallelamente alla costa. I resti delle primordiali “infrastrutture” portuali e delle case palafitticole, sono stati da me identificati, per caso, sulla sinistra dello specchio d’acqua antistante il vecchio porticciolo, nel corso di una ricognizione subacquea. Si presentano questi come grossi parallelepipedi (c.a. mt. 3 x 1 – h. 0,50), in dura roccia sedimentaria, sopra cui l’uomo antico ha ricavato, a misura, fori passanti ove venivano piantati pali che sostenevano le basi delle capanne del villaggio marittimo. Mentre sulla sinistra rocce e bassi fondali proteggevano l’insediamento palafitticolo e gli attracchi portuali dai marosi sospinti dai venti australi, sulla destra, provvedevano analogamente, enormi macigni a fungere da diga foranea per i venti di “maestro”.
Il “Marangone”, anticamente, aveva un’enorme portata d’acqua. Già qui l’uomo preistorico, fruiva dei benefici naturali che il torrente dispensava. Abitava le caverne presenti tra le sue sponde, ricche di selvaggina, di frutti di bosco spontanei, ove si aggirava l’elephas antiquus, mentre nelle sue pescose acque ed entro il prospiciente mare, praticava proficuamente la pesca. Tracce dell’uomo del Paleolitico sono state scoperte, dal compianto F. Capuani, compagno di studi all’Istituto “Baccelli”, sulla sponda sinistra del torrente, presso la macchia delle “Volpelle”, ove sono venuti in luce inequivocabili strumenti litici.
Nell’ottavo secolo a. C., poi, vengono identificati giacimenti ferrosi sui monti della Tolfa, in località “Tramontana”. Il ferro noto e ricercato in oriente, rappresentò per le popolazioni etrusche, una fonte di facile ricchezza e rapido guadagno. Questa circostanza permise agli abitanti della “Castellina” un salto di qualità, passando da un economia, basata su pesca, caccia ed agricoltura, ad una fondata sullo sfruttamento siderurgico.
In prossimità delle miniere di ferro, ove sotto scorre il Marangone, che sarà meta della nostra prossima escursione, venne edificato un villaggetto, ove abili minatori provvedevano ad estrarre il minerale ferroso per trasferirlo, su imbarcazioni, attraverso il torrente, fin sotto la “Castellina”. Il corso d’acqua era in parte navigabile con le imbarcazioni di allora, ed ove non lo fosse stato, venivano creati appositi sbarramenti che ne innalzavano il livello. Una strada costiera, tutt’ora visibile, in parte, percorreva quasi totalmente la sua sponda sinistra e tratti della destra.
Sulla “Castellina” si provvedeva alla fusione del minerale, mentre il villaggetto sul mare fungeva da terminale commerciale. I tre centri raggiunsero in breve una popolazione di un migliaio di abitanti. La “Castellina” era cinta da una muraglia difensiva di 700 metri c.a., su cui erano aperte due porte urbiche. Quella nord che immetteva nella valle alta del torrente ed apriva prospettive sui monti. Quella sud da cui si dipartivano due varianti stradali, una che puntava decisamente verso la “Punicum” (S.Marinella), traversando il fosso Cupo, mentre l’altra traversava la macchia delle Volpelle, ( quella da noi oggi inizialmente utilizzata per salire il colle).
Il problema del villaggio della “Castellina” era decisamente quello dell’approvvigionamento idrico. L’altura su cui era posto, non poteva sfruttare alcun impluvio rispettabile, per cui l’esistenza di una cisterna sull’acropoli. Questa era destinata esclusivamente alla raccolta dell’acqua piovana. La sua forma troncoconica, dalle misure di mt. 5 di diametro di base, mt. 3.50 di diametro di superficie – e metri 7 di altezza, le consentivano, se non vado errato, una capacità di c.a. 160 metri cubi d’acqua.
Le abitazioni erano costruite con elevato in pietra senza connessione, il resto delle pareti ed il tetto, realizzati con pali incrociati, legati tra loro, ricoperti e foderati con fascine di frasche compresse (erica, ginestra od altro).
All’interno del meraviglioso bosco delle “Volpelle”, posto sulla sinistra dell’insediamento, una lunga fila di massi squadrati, lascia supporre l’esistenza di un’area sacrale, mentre intorno sono visibili altre strutture di pietrame vario, non perfettamente decifrabili. Sempre entro la macchia delle “Volpelle”, alcuni cacciatori, hanno costruito sette od otto postazioni di caccia elevate sugli alberi. E’ una chiara dichiarazione di “guerra” ai pochi ormai “migratori”, in particolare piccioni che, nel periodo ottobre-febbraio, provenienti dall’Africa o dalla Sardegna disgraziatamente decidono di imboccare lo spazio aereo del Marangone, abbassandosi qui di quota. In quel momento entrano in servizio i ruffiani “anicali”. Con il loro doppio gioco, al soldo del “signore” per un pugno di granoturco, permettono di far colpire gli ignari “collaroni”, “colombacci” o “palombelle”, che decidono ingenuamente di tirare il fiato su quelle alte “cerque”, alla vista di tranquillizzanti consimili svolazzanti. Sempre entro le “Volpelle” si scoprono, tra la imponente vegetazione, elevati punti di cava, ancora appetibili, degli enormi macigni che l’uomo etrusco traeva per le proprie esigenze. Queste interessanti rocce sono, fortunatamente, sfuggite all’occhio speculatore dell’uomo moderno.
E’ qui che si incontra una tana di istrice, dai due caratteristici ingressi, posti sulla stessa facciata. Servono questi perché l’animale entri facilmente da un foro della sua tana e riesca altrettanto facilmente dall’altro. Se l’istrice dovesse decidere di fare retromarcia, incontrerebbe serie difficoltà, le sue spine contrasterebbero con le pareti del cunicolo. Poco più avanti quella tana centinaia di aculei bianchi e neri sparsi, stanno a significare la cattura dell’animale, fatta con lacci, reti od altro. E qui, che tra gli ultimi spasmi, l’istrice, dibattendosi con fierezza, deve aver perduto parte notevole della sua nobile armatura, ma gli aculei no, non interessano i cacciatori, questi sono attratti dalle sue squisite carni! E non c’è niente da fare per placare le mire dei seguaci di “Diana”, almeno di quelli di questo tipo! Basta frequentare certi circoli di caccia, per sentire, romanzate, le bravate di alcuni di loro, che non risparmiano nessun “essere”, protetto e non.
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Tutte intorno alla cittadella si ergevano due distinte necropoli, quella posta ad est, riferibile ad un periodo compreso tra il settimo ed il sesto secolo a. C., presenta alcune tombe ancora conservate ma in lieve chiaro stato di abbandono. Mentre emergono qua e la alcuni “tasti” di abusivi, che cercano di smuovere cumuli di terra ovunque qualche pietra, dal taglio insolito, involontariamente denunci un’area cemeteriale.
La presenza qui di una tomba orientalizzante “a circolo di pietre”, permette di riferire l’area necropolare al suo periodo storico (VII sec. a. C.). Sono, queste tombe, del tipo a “tholos”, realizzate in Etruria intorno all’ottavo secolo a. C. , che trovano corrispondenza in quelle dell’area anatolica, che però le precedono di ben 5 secoli. Il tetto realizzato con pietre aggettanti, lungo dromos a giorno, con una colonna sostenente il centro della cupola. Mentre il finto tamburo, veniva realizzato con pietre conficcate nel terreno in circolo.
L’altra necropoli, decisamente più vasta, posta verso il fosso Cupo, ha restituito circa 160 tombe, del tipo a “camera” ed a “cassone”. Sono queste attribuibili a periodi successivi il sesto secolo a. C.. Durante gli scavi soltanto pochi reperti sono venuti alla luce, chiara indicazione di continui scavi clandestini.
Ma chi ha degnamente completato l’opera, impunito, in questa area necropolare, è stato “l’ignaro” (?) contadino che, per ampliare la propria area coltivabile, ha accatastato tutte le pietre di ciascuna tomba, una sull’altra, cancellando ogni plausibile forma ed architettura. E qui mi sovviene l’adagio “al contadino non far sapere ….”, cercando di allontanare da me il pensiero di impensabili cementificazioni! Legittimamente mi domando “ma è possibile che una meravigliosa terrazza posta così, 130 metri sul livello del mare, con vista grand’angolare, possa essere sfuggita alle mire dei palazzinari”. Ma forse il Comune di S.Marinella, le altre istituzioni preposte, non cadranno mai nelle trappole della speculazione edilizia, conservando al luogo il vincolo archeologico, malgrado qualcuno abbia tentato di far scomparire e rendere insignificanti quelle emergenze archeologiche.
Decisamente meglio è andata alla macchia mediterranea, posta verso il mare, di colore verde brillante, composta soltanto di lentisco (o lentischio – pistacia lentiscus), con i suoi frutti rosso nerastri. Cibo ricercato da merli e da altri uccelli boscaioli in genere. L’arbusto ripaga sufficientemente l’affitto del suolo occupato, emanando, tutt’intorno, un gradevole profumo di bosco che lascia ben sperare… Il sottobosco poi, tranne che per le migliaia di bossoli di cartucce ora sparse ora accatastate, risulta molto pulito. E non è poco trovandoci a poche centinaia di metri dal mare, prossimi a discariche abusive, ove si possono ammirare esposizioni di salotti, pensili di cucine ancora in buono stato, elettrodomestici vari e televisori con prova e diritto di “recesso”, grazie ad una vicina antenna mobile (semovente su autocarro), che sembra sfuggire ai rigori della legge sul divieto di installazione di questi impianti, fissi su terreno. Ma il genio italiano emerge ovunque e mette sempre in salvo “capre e cavoli”.
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Nel terzo secolo a. C. la nostra “Castellina” viene conquistata dai romani e gli abitanti trasferiti in “Castronovo”. Centro marittimo verso S.Marinella, eretto nel punto ove essi fissarono il loro “castrum”, prima di muovere poi guerra contro Tarquinia ed i piccoli centri posti sulla direttrice marittima. Quegli stessi abitanti che poi inurberanno Centumcellae, nel momento in cui iniziano i lavori del porto di Traiano.
Non sono pochi quelli che ignorano che la nostra cultura marinara, abbia origini così remote. Ne è riprova l’abitudine, giunta fino ai giorni nostri, di costruire ricoveri pensili in legno sul mare, (Capo Linaro - Pirgo – Grotta Aurelia – Ideale – Caravani) e che trovano discendenza direttamente dalle palafitte preistoriche. Qualcosa, in proposito, ne dice l’abilità dei nostri lupi di mare, così bravi a pescare con lenze e sfilaccioni, reti o coffe. E la dice anche lunga la facilità con cui l’uomo comune, in città, sia in grado di stabilire a colpo d’occhio, la direzione di un vento e di identificarlo, o sia capace di affidabili previsioni meteo. Queste esperienze, questa cultura. che vengono da lontano, che solo i popoli del mare possono vantare, hanno in seguito dato i loro frutti. Basta ricordare il grande nostro P.A. Guglielmotti, che realizzò nel 1880 il ben noto Vocabolario Marino e Militare, documento che l’Italia potè vantare nel mondo. Il Documento, che purtroppo non conosco, ma che mi riprometto di consultare prossimamente, ricordo con piacere, per sentito dire, che riporta il vocabolo “sciabordio”. Termine pescato direttamente dalla vasta onomatopeica locale che sta a significare il dolce e rilassante rumore delle onde contro gli scogli o dell’acqua che scivola contro le paratie delle imbarcazioni. (cfr. Vocabolario Marino e Militare del Guglielmotti - Edizioni Voghera 1889 – copia anastatica - euro 80,00).
Vanì, 19-01-2009
BY VANI' , CAMELIA, GUALCO & ACE
P.S. A questi link troverete 3 regali del ns Emilione : "Er Pattino" , "Er Pirgo" , "Brigata Tiburziana"