Non visitare Civita senza affondarti tra i suoi calanchi … accomunati ad uno stesso destino da una natura parca e capricciosa, precederanno di qualche millennio la sorte del paese!
Più o meno la nostra storia inizia con il neogene ( 2,5 – 23 milioni di anni), quando il sollevamento orogenetico della catena montuosa appenninica comincia a delineare i nostri due mari maggiori, il Tirreno e l’Adriatico. Per giungere ad esaminare gli aspetti geo-morfologici della Civita dobbiamo fare un lungo salto e spostarci con la nostra macchina del tempo molto avanti, fino a raggiungere l’ultima fase del neogene, il pliocene (2,5 - 5,3 milioni di anni fa). In questa Epoca il nostro territorio è occupato da acque meteoriche e paludose. E’ un enorme mare, dal basso fondale, su cui sono deposte sabbie ed argille. Ma il susseguirsi di glaciazioni e l’inizio di una intensa attività vulcanica, del Pleistocene del Quaternario ( 2,5 milioni anni fa – 11.700 anni fa), causata da numerose fratture della crosta terrestre, cominciano a delineare il particolare aspetto del nostro territorio. L’intensa attività dei vulcani del Lazio settentrionale e delle immense caldere attive, in tempi diversi, mettono a “ferro e fuoco” tutto l’Alto Lazio. Rocce laviche e piogge di materiale piroclastico abbozzano gli aspetti montuosi e collinari, colmando gran parte delle depressioni del territorio. Inizia ora l’attività dei corsi d’acqua che, con andamento est-ovest, modellano lentamente l’orogenesi, cui si aggiunge la furia dei venti ed il dilavamento delle piogge meteoriche. Un’enorme quantità di detriti sabbiosi vengono trasportati verso il nascente mar Tirreno.
Il luogo ove sorgerà la Civita é formato da uno strato di 30 - 60 mt. di rocce tufacee poggianti su uno strato profondo di sabbie ed argilla. Frattanto comincia a delinearsi il Colle della città per effetto dell’erosione di due impetuosi torrenti, il Torbido ed il Chiaro. Hanno già fatto precipitare, nei tratti più sottili, lo strato superficiale di tufo, scavando nei sottostanti banchi di sabbia ed argilla. Resta, relativamente stabile, soltanto una piattaforma rocciosa che si staglia in alto per un’altezza di 70 – 100, mentre lungo il suo perimetro si sono formati strapiombi, soggetti a continue disgregazioni.
L’invalicabilità della Civita richiama l’uomo preistorico che qui trova protezione e sicurezza. Nel giro di due o tremila anni giungono gli Etruschi. Ma ben presto si rendono conto dell’instabilità del territorio, i due torrenti erodono troppo velocemente gli strati argillosi perimetrali della città facendo rovinare a valle frammenti di roccia rimasti privi di appoggio.
Vengono regimentate le acque meteoriche e torrentizie attraverso la creazione di appositi collettori e canali, molti alberi sono posti a dimora per assorbire le acque in eccesso e trattenere il terreno ad evitare smottamenti.
La Civita acquista stabilità, si sviluppa attivamente, nella parte più alta è posta l’Acropoli con la sua piazza ed il tempio dedicato alla triade del pantheon Rasenna: “Tinia - Uni – Menrva”.
Le strade sono costruite con sistema ortogonale, nel punto di incontro del decumano maggiore e dal cardo, è posto il “mundus”, particolare pozzo che mette in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti. Un cippo ricopre questo punto di contatto, per venir tolto nel giorno dei morti e permettere loro di risalire dalla necropoli sottostante e visitare le case dei vivi, secondo la concezione della religione etrusca!
La romanizzazione in Etruria? Una vera e propria calamità, dopo la conquista ed un periodo transitorio ovunque è abbandono ed isolamento. La cura che il popolo Rasenna dedicava alla sua terra, ai suoi torrenti, alle città ed al suo Pantheon, venuta meno, mostra i suoi limiti, e la nostra Civita paga lo scotto maggiore. Con il tempo, senza la regimentazione dei torrenti e dell’acqua piovana , subisce frane un po’ ovunque. Agli agenti atmosferici si aggiungono periodicamente terremoti.
Oggi la Civita che vediamo è la resultanza ed il frutto di ben due millenni di incuria e trascuratezza, qualcosa poteva esser fatto. Ma allora il ricco patrimonio archeologico italiano non è per la maggior parte alla pari del nostro Paese, abbandonato a se stesso!
La prima volta che visitai la Civita e mi affacciai dal Convento di S. Francesco, il colle del Paese aveva le pendici ricoperte dalla nebbia. Il lungo ponte, cordone ombelicale con madre terra, era invisibile ricoperto dalla foschia. Il vento faceva fluttuare, a guisa di onde marine, la bianca coltre schiumosa mentre la Civita imperterrita scarrocciava come una nave in mezzo alla tempesta senza governo priva di equipaggio, nel suo immenso mare, con il suo campanile svettante, quale albero di maestra.
LA NEBBIA E CIVITA
Poi d’un tratto una folata di vento fece riapparire il ponte come un fantasma, in fondo all’infinita depressione.
Giunto in paese notai di lato il rudere petroso di un palazzo signorile ancora tenacemente abbarbicato ad un impervio crinale, che poi seppi appartenere alla Nobile Famiglia Janni, ed essere l’ultimo baluardo del quartiere Mercatello, precipitato nel vuoto.
PALAZZO JANNI
Mi accolse con garbo l’elegante portale che mi fece subito comprendere quanto nobile e potente fosse stata un tempo la Civita.
IL PORTALE DELLA CIVITA
Due leoni posti sopra l’ingresso ad ammonire eventuali nemici e ricordare la conflittualità con la Città di Orvieto nel periodo delle “signorie”. Più in alto un’aquila, simbolo del Card. Reginald Pole, posta a significare il lungo ed acuto sguardo volto verso l’ultimo orizzonte.
Ma sembrò di varcare la porta di un paese abbandonato, di alcune case non rimaneva in piedi che la sola facciata, le cui finestre volgevano lo sguardo sull’infinito, altre semi dirute, conferivano nell’insieme alla Civita un aspetto magico e spettrale. Girando i minuscoli quartieri mi giunse alle narici odore di legna bruciata, non ero dunque entrato in un paese disabitato, qualcuno era in casa accanto al fuoco del suo camino.
Gli abitanti del paese, in inverno erano allora 7, d’estate più di duecento perché molti civitonico emigrati all’estero, in specie in Australia, ritornano perché fortemente legati a queste quattro pietre, cercando di rimettere in ordine tutto ciò che è andato in rovina.
In estate viene celebrata la festa popolare della “Tonna”. Nel lastricato della piazzetta del paese viene cosparsa della terra e creata una pista circolare per allestire una corsa di ciuchi. Di gente ne accorre tanta ad occupare il perimetro intorno ai palazzi.
Il paese così come mi si mostrò quel giorno mi sembrò normale, non avendo lì per lì io cognizione di ciò che fu. C’era il palazzetto comunale, con il suo caratteristico profferlo, antesignano delle scale antincendio!!!
PALAZZO SEDE DEL COMUNE DI CIVITA
La chiesa una volta tempio pagano con avanti antiche colonne. A quel tempo schietto tempio con un certo fascino. Dopo certi lavori di manutenzione che le hanno conferito un aspetto più signorile, è stato però cancellato quel suo caro aspetto di pieve agreste. Alcuni interessanti affreschi delle pareti, ad esempio, tra cui uno di questi rappresentante il paese prima che alcuni quartieri rovinassero a valle, sono spariti!
LA CHIESA DI S.DONATO
L’austero Palazzo Alemanni-Mazzocchi, che ospitò il traduttore dell’Eneide, Annibal Caro, posto sulla destra entrando, si può dire che sia rimasto tale e quale, invariato nel tempo.
Stesso discorso per il palazzo Arcangeli, posto poco più avanti, sotto cui è stata sistemata la vecchia cimasa in peperino della vecchia Cattedrale, per essere utilizzata a mo’ di panca.
Altri palazzetti e caseggiati mi dettero il benvenuto ma io ero fermamente intenzionato a raggiungere la Valle dei Calanchi. E la Valle dei Calanchi fu, raggiunta attraverso il suggestivo Bucaione, anche senza conoscenza della zona e contezza dei pericoli e tranelli nascosti che man mano ho imparato a conoscere ed a non sottovalutare.
IL BUCAIONE
Da allora non ho mai smesso di andare per Civita senza visitare i suoi Calanchi e pinnacoli, di questi ne ho acquisito una discreta conoscenza, dal Montione al Chiccoro rosso, dal Pianale ai Ponticelli, fino a giungere, col tempo, sotto quello che chiamano la “Cattedrale”.
SULLO SFONDO LA CATTEDRALE
Ma ogni volta che rivedo il paese e soprattutto scendo le sue valli, mi rendo conto che la mia cara “vecchia” subisce continuamente aggressioni e modifiche nella delineazione dei suoi contorni, al pari dei suo Calanchi che lentamente si assottigliano come lame di rasoio, prima di collassare su se stessi e sparire per sempre! E così mi rendo conto che questi miei cari amici stanno invecchiando a mio pari. Mai detto non fu più giusto di “Civita il paese che muore” coniato dal filosofo Bonaventura Tecchi, figlio di questa terra.
IL MONTIONE
… e da ultimo, ancora sul posto, il “Samurai” che urina
…ed ancora un ultimo omaggio per i Tiburziani VERACI … alcune foto tratte dal mio archivio personale (Vanì):
LA CIVITA PRESEPE
PRESEPE NELLA CIVITA
SCORCIO SULLA VALLE DEI CALANCHI
Un caro saluto a quanti hanno voluto seguirmi nelle decorsa stagione trekkistica ….
Vanì, 13-05-2012