…. in punta di piedi, sorretti dalle bacchette da trek, nel silenzio del più sacro rispetto e nel timore di richiamare l’attenzione delle “guardie dei Domizi”, attraversiamo la tagliata etrusca, proprietà e patrimonio di quella ricca famiglia romana; il divieto di passaggio sulla via, ribadito dall’iscrizione scolpita sul peperino ripassata all’interno delle lettere con vernice rossa, intendeva vietare il transito a chiunque. Ai viaggiatori che dalla Valle del Tevere attraversavano la regione in direzione del “Mons Ciminus”, di “Vetus Urbis” o dei prossimi laghi e viceversa. I Due Domizi, presumibilmente fratelli, appartenenti alla potente famiglia senatoria romana, possedevano, nel I secolo d.C., almeno una fornace per la costruzione di laterizi nei dintorni di Mugnano, ciò è attestato dai sigilli apposti su tegole, mattoni e coppi di loro produzione, utilizzati anche per erigere importanti monumenti in Roma.
Ancor prima che “Lucio Domizio Enobarbo Claudio Cesare Augusto Germanico” alias Nerone, divenisse imperatore romano a 17 anni (54 d.C. 68 d.C.), succedendo a suo padre adottivo Claudio, la Famiglia dei Domizi era attiva e molto potente nella VII Regio (ex Etruria). Per riconosciuti meriti bellici, intorno al primo secolo avanti Cristo, ottenne, per disimpegno, dal Governo Centrale, numerose “terre” in provincia. Apparteneva ai “Domitii” la villa Romana nell’isola di Gianutri, quella di Baia Domizia presso Cosa, l’altra in Punicum e forse in altre località ancora.
Il cammino ci porta ora verso altre emergenze archeologiche che, “protette” dalla fitta vegetazione, si parano improvvisamente, a spaglio, innanzi a noi. Raggiungiamo così una sorta di manufatto a forma pentagonale, dell’altezza di circa 7 metri, con una colonnina di pietra alla base. Definito “la pirimidina,” sembra avere un riferimento astronomico con “Il Piramidone”, sito poco più in alto. Emblematica quest’ultima megalitica costruzione, ricavata da un enorme “masso erratico” di peperino scivolato dall’altipiano. La facciata fruibile si pone prepotentemente avanti alla vista, un’elevata ripida gradinata conduce dalla base a due ambienti, a “cielo aperto”, da cui si dipartono due gradinate verso l’alto per raggiungere un’alta terrazza. Su un lato sono presenti alcuni intagli che scendendo quasi alla base dovevano raccogliere in alcune nicchie del liquido.
Incerta è la funzione per cui l’opera sia stata realizzata. L’imponente manufatto, di sicura matrice etrusca, potrebbe rappresentare un altare sacrificale, un ara dedicata ad una particolare divinità o addirittura potrebbe essere stata costruita per incinerare i defunti. Comunque, qualsivoglia sia l’uso per cui sia stata concepita, ne ammiriamo l’imponente struttura, a tratti simile ad alcuni altri manufatti presenti nei dintorni di Bomarzo (Sasso Predicatore 1 e 2 etc.), con qualche analogia con le costruzioni piramidali di Macchu Picchu.
La vista della nostra “Piramide” suscita, nell’attimo, sensazioni e vibrazioni diverse in ognuno di noi, estrapolati dagli schiamazzi del Gruppo. E’ qui che conosciamo Salvatore Fosci, ragazzo del luogo, cui dobbiamo il merito della riscoperta dell’intero sito, avendo ripulito, gratuitamente, le emergenze archeologiche invase dalla macchia e dai rovi, ma lui minimizza tutto. Lo ringraziamo per la sua modestia; il suo carattere estroverso lo porta alla conversazione con tutti noi e mentre parla del Bosco di Bomarzo, trapela dai suoi occhi, tutto l’amore per la sua terra.
Risaliamo un erto pendio fin sotto la finestraccia, una casa su due piani realizzata interamente entro un enorme masso di peperino, mentre raggiunto l’altipiano, ci imbattiamo nella stele funebre di “Musetto”” un cavallo di Bomarzo deceduto durante una competizione, qui seppellito con tutti gli onori nel più sereno camposanto del mondo. Mentre in silenzio rendiamo omaggi funebri a “Musetto”!
Percorriamo, per raggiungere la meta, un bel sentiero lungo il costone roccioso, sotto il quale si dispiega un’immensa forra lussureggiante, sulla nostra sinistra un tratto di mura urbiche etrusche, in opera poligonale, ci ricordano l’anno presumibile del loro elevato, 310 a.C., per scongiurare la conquista romana. In quell’anno i romani, seguito il corso del Tevere, avanti Orte, hanno inflitto agli etruschi, di Volsinii e Tarquinii, presso il Lago Vadimone una pesantissima sconfitta, che sancì di fatto la loro egemonia su tutta l’Etruria. Segui dopo la tregua dei quarant’anni richiesta da Tarquinia.
Scendiamo la tagliata che ci porta all’abitato etrusco di S.Cecilia. Ovunque tutt’intorno la presenza di rocce e manufatti intagliati dall’uomo. Una bella casa nel bosco prossima ad una chiesa longobarda sulle cui fondamenta sono presenti numerosissimi sarcofagi antropoidali scavati nella roccia. Tutt’intorno all’edificio di culto alcuni Menhir e varie “pestarole” che culminano con una più grande, incorporata in una costruzione complessa. Non c’è dubbio che il luogo doveva essere dedicato alla divinità etrusca del Dio Fuflun (Bacco etrusco), prima della chiara dominazione longobarda.
Non ci resta ora che percorrere a ritroso la tagliata etrusca, per riportarci sull’altipiano e prendere la direzione del Torrente Castello-Torre di Chia. Percorrendo il sentiero sul bordo dell’altipiano, ampi scenari si aprono sulla vallata opposta. Si intravede il diruto paesino di Chia, avanti l’alta Torre omonima, l’ampia valle tiberina e le colline di Giove ed Amelia.
Sul greto del Torrente incontriamo un grazioso ponte etrusco, alcuni mulini che presentano ancora le macine in dura roccia, e mentre passiamo entro una bella galleria artificiale, giungiamo avanti un’immensa piazza “fluviale” su peperino ove il Torrente ha scavato con lavorio millenario, il suo alveo dalle forme più bizzarre, a seconda del flusso più intenso centrale o delle correnti laterali. Presenti vasche, vaschette, canali, salti, tuffi di roccia fino ad una sorta di apologia alla scultura naturale, un tratto di roccia ove possenti onde sussultorie di piene hanno lasciato l’impronta del loro negativo
Proprio sotto la cascata maggiore, un cartello affisso ad un albero ricorda che le immagini del luogo furono le prime “quinte” della scena del Film “Il Vangelo secondo Matteo” del Grande Pasolini.
Terminiamo l’escursione con la visita alla immensa torre a base pentagonale, che domina sulla cascata del torrente. Fu abitazione dello scrittore, che qui si ritirò asserendo di aver scoperto il luogo più bello del mondo.
E non possiamo non dargliene atto ove si consideri che - malgrado il tempo trascorso dalla sua morte (1975), l’aggressione dei fautori delle discariche a cielo aperto, l’opera infaticabile dei fagottari, di disboscatori ed incendiari, la pubblica incuria - il luogo conserva ancora un certo fascino.