“TREK” AL FOSSO MAGNAFERRO

Oggi il Tiburzi, parte con serie pretese rispolverando il suo perduto orgoglio. Oggetto, la traversata delle selvagge colline dei Monti della Tolfa, che dallo spartiacque del versante marittimo tirrenico precollinare, giunge alla Media Valle del Mignone, presso le Sorgenti Termali delle Acque Apollinari. L’uscita è indicata per i trekkisti che abbiano onorato sin qui tutte le nostre uscite. Inoltre il percorso è disseminato di handicap naturali ed accidentali, per le ultime abbondanti piogge.

Questo tratto, non casualmente, è stato perfino trascurato dalle centuriazioni romane, che pur hanno interessato zone limitrofe, poco più che appetibili, mantenendosi “puro” ed intatto nel suo aspetto aspro e naturale.

La “ballata selvaggia” prende le mosse dalla bella strada della Nocchia, più volte franata e mal rattoppata, per il fondo posto su terreni alluvionali. Lunga alcune decine di chilometri soltanto, si diparte dall’omonimo fontanile adiacente la S.P. S.Severa-Tolfa, per giungere fino alla stazioncina ferroviaria di S.Severa Nord, per tratti boscosi fuori “ordinanza”, lontani dal mondo.

Sono, queste lande, di una bellezza indescrivibile, ma altrettanto invivibili, tranne con risorse che non derivino dall’allevamento di bestiame brado. Ne sa qualcosa Tartanella, che al margine di queste colline venne a viverci, con la sua numerosa famiglia. Abitò, non so quanto, in una minuscola casa di sassi da lui stesso eretta. E “spiccò” migliaia di dure pietre per sottrarle a quel terreno impossibile e renderlo fecondo. Alla fine del suo impeto dovette rinunciare a quella vita così dura, ingannevole ed improba.

Si può senz’altro definire, questo magico luogo “Località Pietre al Vento”, non essendo neanche risparmiato dai sudditi di Eolo.

In taluni decenni siccitosi, perfino l’allevamento brado stenta ad attecchire in queste petraie e c’è perfino chi qui sopra ha investito i risparmi di una vita. Ma poi, sopraffatto dagli stenti e perdite, ha dovuto abbandonare opere e bestiame, di cui spesso se ne ha perduto il controllo.

Gli animali “persi” riescono anche a sopravvivere, sottraendo l’altrui fienagione. Sono anche riconoscibili per la loro pelle rinseccolita, più dura della roccia e del terreno che calpestano.

Ma c’è poi anche il momento in cui la vita esplode con tutto il trionfo su queste colline. Con l’arrivo della primavera, dopo una certa aridità e squallore anche di mesi, si trasforma tutto in una festa di colori, da far invidia anche ai più ben curati giardini di città. Come per incanto, anche brevi piogge, suscitano dal suolo nudo, tappeti di fiori, mentre rigogliosi boccioli bianchi si fanno strada tra le spine dei peri e del biancospino.

Tra gli animali che riescono a sopravvivere in questa amara terra di confine, annoveriamo soltanto poche specie, qui parzialmente addomesticate. C’è l’asino, per il vero oggi un pò raro per lo scarso uso che se ne fa. Ci sono i cavalli muschiati dei Monti della Tolfa - discendono direttamente dal loro antenato etrusco - che vengono utilizzati per la macellazione soltanto. Infine troviamo, ben rappresentato, l’animale più emblematico di queste “pietrische”: la vacca maremmana (razza podolica) dalle grandi corna, che ci riporta alle dolci immagini descritte nei poemi omerici. Esattamente alle sacre vacche di Hiperion, Dio del Sole, con le corna lunate e la fronte ampia, della terra di Trinacria, che la indisciplinata ciurma di Odisseo abbatte per nutrirsene e che tanti guai si procura per questo “sgarro” fatto al figlio di Zeus.

Sono, questi animali, avvezzi ad ogni temperie mediterranea, alle gelide e ventose tramontane, agli estemporanei periodi piovosi ed a siccità impensabili che li costringono ad estenuanti marce, nel loro ambiente impervio, quando gli sparsi fontanili si prosciugano, per raggiungere qualche superstite polla d’acqua, per poi brucare qualche raro spino od a mordere la corteccia dura di alberi secolari, avari di linfa, quando la temperatura di queste colline raggiunge i quaranta gradi. Anche se l’uomo interviene integrandone la dieta con periodiche fienagioni o trasportando con i moderni “fuori strada” serbatoi d’acqua!

Di quando in quando sparse bianche ossa testimoniano la caduta di esemplari vecchi, malati o la fine di “sfigati” elementi giovani che, moribondi per stenti, finiscono in pasto a lupi, cani randagi, volpi ed ai corvi “scarnificatori”, che si preannunciano con il loro lugubre canto.

Non credo che queste colline siano così mal ridotte per motivi climatici od idrogeologici soltanto. Piuttosto penso, traguardando boschi all’orizzonte, che sia stata piuttosto l’opera poco diligente dell’uomo che, pur con un’attenta “Università Agraria” locale, abbia deliberatamente disboscato i luoghi per accrescere la dimensione dei pascoli. Ma il gesto è stato come la vittoria di Pirro. Dopo pochi anni fruttuosi, il terreno si è ricoperto di piante spinose, ed ovunque è fuoriuscita l’argilla, ove sopra, pur in presenza di abbondanti piogge, non attecchisce più erba da pascolo spontanea. Tutta l’acqua piovana si raccoglie in guinze, favorendo frane e smottamenti. Ingente pietrame è venuto alla luce impedendo un sicuro cammino sui pascoli.

Ma parliamo ora della nostra escursione.

Venti persone circa, la maggioranza di loro sono alla prima uscita col Tiburzi, pochi senatori con noi: “intelligenti pauca”! Sono anche presenti oggi Patrizia, Giuseppe e Francesco, Alfredo e Signora.

Percorso un breve tratto della carrareccia dopo il cancello in legno, digradiamo dolcemente verso valle fino ad intercettare un ameno fontanile. Il piccolo Francesco si infastidisce perché sono oggi sciamate le “effimere od efemere”; sono queste una sorta di zanzaroni innocui che a volte ci sfiorano la pelle, sono in maggioranza di genere maschile, e nascono senza apparato buccale ma con organi riproduttori efficienti e poco dopo aver fecondato le femmine muoiono. La vita ha assegnato loro solo questa importante funzione. Quindi un paio di ore, max due giorni, e poi un breve sospiro e … “ppfff”, trapassano. Diverranno catena alimentare del mondo animale e niente più. Agli esemplari femminili invece è affidato un compito pluriennale e meno precario.

Dimora qui, attorno al fontanile, generalmente una famiglia di cavalli muschiati bai con tanto di stallone, fattrici e puledri. Ma c’è una cavalla della mandria che mi scambia per il suo padrone ed appena avverte la mia presenza, con l’olfatto o con il forte udito, comincia a nitrire fino a quando non mi vede scomparire all’orizzonte , in barba al disappunto dello “stallone”. E’ la terza volta che questa mi incontra e che mi saluta in questo modo, (NdR: forse riconosce in lui uno degli ultimi maschi rimasti). Poco dopo il fontanile troviamo le ossa del cranio di un puledro, giovane, riconoscibile dalla dimensione e dalla sana ed intatta dentatura. Lo ricomponiamo amorevolmente e lo fotografiamo. Più avanti scopriamo altri resti dello scheletro.

E’ qui che il piccolo Francesco rompe il ghiaccio e comincia a vivere e gioire dei piaceri della campagna.

Intercettiamo finalmente il bel Fosso del Magnaferro dalle trasparenti e ridenti acque. Lo dobbiamo seguire fino a valle per tre chilometri circa, ammirandone i suoi più reconditi ed inusitati aspetti: i lunghi viali del torrente, le sue bianche rocce ed i maestosi alberi ripariali riflessi nelle ricche ed abbondanti pozze, pur seminterdetti alla vista, da una fastidiosa e pericolosissima recinzione di fili spinati. Dovrebbero abolire l’uso di questo tipo di recinzione, basterebbe che i fili di acciaio zincato fossero privati delle cattive spine di acciaio, che feriscono soltanto l’uomo che le ha ideate! A volte è capitato di notare che i cinghiali, inseguiti dalla canizza, con la loro dura schiena, nel colpire il filo a forte velocità, che forse neanche vedono, lo strappano senza subire danni.

Ma c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico; io sono altrove e sento che intorno sono nati i rafani. Piuttosto abbondanti sulle coste del Magnaferro, catturano tutta l’attenzione dei trekkisti. Almeno due o tre di noi reca in grembo, in breve, un bel fascio di tamari, così si chiamano queste eduli e piccole liane che crescono avvolte attorno agli spini. Noti ad Allumiere con il termine di “aboiole”, vitazze e/o luppoli in Toscana. E c’è oggi chi li raccoglie, chi aiuta a raccoglierli dietro promessa di un piatto di zuppa, la loro morte, od altra più impegnativa trattativa od accordo!

Il Gruppo rallenta vistosamente l’andatura, vengono trattati anche i vari modi di cucinare i rafani che raramente vengono consumati in Italia.


Zuppa di rafani. Dose per 4 persone.

Ingredienti: Un chilo di rafani. Quattro uova. Quattro salsicce bianche non grasse (od un etto di guanciale). Due o tre patate. Olio, aglio, peperoncino, persa, sale e pane raffermo q.b., ottimo quello della Tolfa,

Preparazione: Il solito soffritto di olio, aglio e peperoncino e persa (maggiorana - poche foglioline), si aggiungano le salsicce od il guanciale, una spruzzata di vino bianco. Salare ed aggiungere acqua calda e le patate tagliate a fettine, lasciar cuocere. Infine si aggiungano le punte dei rafani, fino alla parte tenera che si spezza senza difficoltà, infine scodellare le uova in quattro punti diversi. Quindi il pane abbrustolito va posto nei piatti fondi e sopra il contenuto della zuppa, che dovrà avere una giusta dose di liquido, ma non eccessivo e contenere un uovo ciascuno ed 1/4 di tutto, salvo spiacevoli discussioni. Si copre poi il piatto con un filo d’olio d’oliva vergine. Il segreto sta nel lasciare evaporare il liquido in eccesso per una giusta quantità di brodo residuo.


E’ un po’ che camminiamo e qualcuno della “ciurma” soffre di impazienza. Ma finalmente la sponda rocciosa sinistra del Magnaferro si inclina sempre più verso destra, è segno che dobbiamo guadare per raggiungere i prati sotto la lucumonia delle Pietrische. E’ qui la nostra meta ed il campo base desiderato ed … il pranzo fuori del sacco.

Al termine, piuttosto rifocillati, proseguiamo per un sentiero, che prossimo a divenire una comoda carrareccia, ci riporterà, senza tanti giri interlocutori, direttamente alla vetture. Frattanto sulla destra della strada si notano imponenti liane discendere dagli alberi secolari, mentre sui tronchi numerosi grossi fori fatti da una comunità di picchi rossi per ripararsi, e per costruirci all’interno il proprio nido, per la imminente stagione riproduttiva.

Risaliamo un lungo pendio giusto giusto per le nostre residue forze e riserve. Su in cima si apre la Valle delle Terme di Stigliano, più arretrata, una imponente ed amena fattoria dai colori vivaci, mentre su in alto, verso est, l’opificio di Monte Augiano per la definitiva depurazione delle acque del Mignone ed, ancora più in alto, le rovine di Monterano (Manturna), poi il paese di Canale Monteranno con la Bandita Grande e Monte Monastero.

Ma il panorama offre ancora qualche riserva. Giunti in cima al colle, dopo aver percorso la tortuosa e lunga carrareccia, si apre avanti a noi la vista della Tolfa e della inequivocabile ferrigna Rocca Frangipane. Proprio in questo punto il nostro sentiero è intersecato da una imponente selciata che doveva collegare le Fonti Apollinari, la necropoli del Ferrone, Cere e Pirgy. Si nota anche una massiccia stele appoggiata orizzontalmente a terra, a fianco della strada, che si perde poi tra la bassa vegetazione. Ora il percorso è in quota ma abbastanza tranquillo fino alle nostre macchine. Ma giunti dall’alto, sopra il fontanile, ove staziona la nostra mandria di cavalli bradi, la solita cavalla amica avverte la mia presenza ed un nitrito mi accompagna fin quando non sparisco dietro l’orizzonte.

Giunti alle macchine ci salutiamo con appuntamento alla prossima uscita, ultima della serie: la traversata che dalla Fontanaccia ci porterà, a discendere, verso l’Istituto del S.Volto ed il Quartaccio di S.Marinella.

Vanì, 11-04-2010


LE FOTO
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Photo by Camelia & Vanì - Published by ACE