Breve allocuzione sul Pian delle Vigne, solite indicazioni topografiche e storiche della località, piacevolmente tuffati entro multicolori pastrani al riparo della già frizzante e pungente tramontanina. Poi ci lasciamo divertire, in un particolare angolo non più grande di un fazzoletto, da una inusitata eco, scoperta casualmente nell’uscita di verifica. Questo fenomeno naturale, capace di ripetere intere parole a pappagallo, riflesse a noi dall’opposto pianoro dell’Acropoli, scandisce le nostre frasi, senza alterarle, con effetto amplificato.
Frattanto discendiamo la Necropoli per il sentierino di accesso, scosceso e scivoloso, appuntati sulle bacchette di ordinanza, agitando le anche a mo’ di discesa sciistica. Ma penetrata la Necropoli la troviamo completamente invasa e soffocata dalla vegetazione. Risulta palese che da tempo nessuno più effettua manutenzione al luogo. Norchia oggi non più curata, nasconde le sue spettacolari emergenze archeologiche tra l’abbondante vegetazione. Giunti lungo il torrente Pile, fatichiamo a riconoscere la imponente tomba della Famiglia Smurinas, il suo ampio vano porticato. La maestosa costruzione, è parzialmente preclusa alla vista. Poco più avanti, il tratto di tombe a semidado, poste su tre ordini sfalsati, soffrono dello stesso male, così appena intravediamo la Tomba Ciarlanti, ma non i suoi tre enigmatici vani di sottofacciata. Si salva alla vista la tomba del camino che è posta in alto, ma della “Prostila” e quella dei “Veie”, appena emergono le parti alte dalla vegetazione. La Tomba Gemina di Vel Ziluse è completamente scomparsa, ne identifichiamo il sito da un cartello indicativo sporgente tra i rovi.
Alquanto delusi, per rifarci, risaliamo rapidamente lo sperone di tufo dell’Acropoli, dal quale si spera di poter colpire dall’alto la vista della necropoli sul Pile.
La panoramica dall’alto del Pianoro di Norchia sulle tombe infatti, eludendo la fitta bassa vegetazione, ha mantenuto buona parte della vista, lo stesso fascino e suggestione di un tempo. Superato il pericolante Castello dei Di Vico, ci portiamo avanti la chiesa di S. Pietro che risulta fruibile grazie a qualche “buon’anima” che ha provveduto a liberarla dalla vegetazione. Raggiungiamo la porta medievale per traversare il versante destro del Biedano, ed avviarci nei pressi del guado sul torrente, verso l’ingresso della c.d. “Cava Buia”, che dobbiamo traversare per proseguire l’escursione.
Questo particolare tratto dà sempre l’impressione di traversare una foresta tropicale. I suggestivi massi di tufo, grigio verde, base dell’Acropoli, non lasciano trafilare i raggi del sole, mentre la temperatura del luogo mantiene costantemente l’umidità. L’alta vegetazione sempre verde, favorita dalla lunga estate di San Martino, permette un’ampia vista lasciando intravedere dall’alto il suggestivo corso sinuoso del Biedano che riflette argenteo una luce pescata chi sa dove, mentre il basso livello di portata del torrente scopre una traversa di grosse pietre che incoraggia al guado.
Di là è la cava buia, la etrusca Via Clodia, svanita nel nulla già dal castello! Il tempo ha sepolto buona parte del suo tracciato, custodi terriccio, foglie e massi in rovina. Ma la furia del torrente ingrato non ha risparmiato il Ponte. Le periodiche piene han fatto a pezzi le arcate, spazzato via i miseri resti, trasportati avanti quali fuscelli, ora irriconoscibili, tinti di alghe e licheni.
E la nostra cara “Cava Buia”? Irraggiungibile ormai per molti è chiusa in sé stessa. La suggestiva entrata - costellata di tabernae - è preclusa da una voragine! L’altro passaggio, poco più avanti posto, perennemente allagato, costringe, se la si vuole ancora percorrere, un accesso aereo sull’elevato tufaceo, sicuro solo con l’ausilio di cordami. Ma per scendere giù ci vuole attenzione perché di quando in quando la Clodia “chiede” qualche vittima sacrificale. Così un ignaro vitello, per brucare la lussureggiante vegetazione sulle alte sponde, ha finito i suoi giorni volando giù, in rovina. Mentre una biscia viperina nel 2006, scesa dalle pareti per presentare il conto ad un festoso condominio di ranocchiette, terminato il pasto forse non ha più trovato l’uscita!
Lei, completamente intagliata nel tufo, maestosa nei suoi 400 metri di lunghezza, 2,50 mt. di larghezza e 10 mt. Circa di altezza media, ha ancora lunga vita. Teme soltanto l’invadente bacolaro che infiltra le radici nelle sue pareti di tufo che, di quando in quando precipitano giù grosse scaglie di roccia. Per i resto è sempre una bella ed affascinante “anziana signora” che porta bene i suoi duemilaquattrocento anni. I suoi scorci, le lunghe panoramiche, le pareti a strapiombo di storie ce ne potrebbero raccontare “mai tante” (licenza toscana!). Quanta gente ha calpestato la sua carreggiata! Concepita dal popolo etrusco, ha favorito la dominazione romana. Utile ai longobardi invasori, alle Sante Crociate per raggiungere l’Italia Centrale, all’inizio del secondo millennio, l’hanno percorsa i pellegrini in viaggio verso Roma, alla ricerca della “Perduta Patria Celeste”.
Ma l’opera è sempre viva, alcune iscrizioni incise sulle sue sponde sembrano scomparse, quelle dei nomi dei consoli romani che ne hanno fatto manutenzione: “Ti. Terentius” e “C.Clodius Thalpius”. Altre, riferibili al medioevo sono ancora visibili.
Un tempo buona parte della Cava Buia era in galleria, secondo particolari studi effettuati, e quando il viandante usciva sul vasto pianoro dello “Sferracavallo”, la luce del sole accecava i suoi occhi adattati alla penombra.
La vasta pianura infarcita di emergenze archeologiche, che molti ha arricchito con scavi clandestini, poteva rappresentare il granaio ed il campo di allevamento di bovini ed equini di Norchia (Orcla), nel IV sec. A.C, rendendo fortuna e ricchezze agli etruschi. Il grande Altipiano è anche ricco di acque, per tre lati confina con vari torrenti, a sud ed est c’è il Biedano, alla sua estremità Nord i fossi Leia e Rigomero, mentre nel punto di confluenza dei tre corsi d’acqua nasce il Traponzo (tre ponti), che si immette più avanti, verso ovest, nel Fiume Marta.
Traversato lo Sferracavallo, scendiamo una piccola tagliata verso un altro guado del Biedano, meta le tombe etrusche a tempio dorico sul torrente dell’Acqua Alta. Anche queste belle emergenze, aggrovigliate dalla vegetazione risultano poco visibili. Soltanto chi conosce bene il luogo e sa muoversi entro la fitta boscaglia, riesce a raggiungerle. Le due facciate lise e mal ridotte dagli agenti atmosferici, sono rese comprensibili soltanto dal cartello esplicativo della Sovrintendenza. Dei due timpani ne sopravvive intero uno soltanto, metà dell’altro si trova presso il museo archeologico di Firenze (Sic! uno scempio del genere ce lo saremmo aspettato soltanto da un incauto ed egoista tombarolo …). I due timpani, decorati alla base da un motivo a geison dentellato, sovrastano triglifi e metope. I primi ricordano le antiche costruzioni templari doriche ove erano realizzati con tre tronchi di legno ciascuno. Negli spazi vuoti delle metope potevano essere alloggiate tavolette di argilla con motivi in bassorilievo. I frontoni, mal conservati, presentavano delle divinità drappeggiate da una parte mentre dall’altra una teoria di guerrieri. Singolare è la presenza, ai due lati dei timpani, di due Gorgoneion, che non trovano riscontro nei templi dorici greci, ma poste sui tetti delle case etrusche con funzioni di pluviali. Mancando ai templi tutti gli altri elementi sottostanti, perché asportati, non possiamo indicare altro ma immaginarne la realizzazione a perfetta similitudine con l’ordine architettonico dorico.
Il sole non ancora tramontato, ma già sotto il nostro orizzonte, ci stimola ad affrettare il rientro, onde allungato il passo chiudiamo il cerchio della nostra bella uscita in Norchia, sognando di rivederla come si presentava una volta, quando le sue emergenze scioccavano da lasciare senza fiato, una vera sindrome di Stendhal.