Situati nella Tuscia interna - dimenticati da Dio e dagli uomini per sfavorevoli circostanze e per le continue lotte fra gli etruschi ed i romani - oggi ben lungi da centri abitati, posti, con le loro guarnigioni, a controllo, dalla riva orografica destra del torrente Traponzo e fiume Marta, dei passaggi sulla vecchia e non più agibile Via Clodia.
La Consolare romana, ricalcava preesistenti tratti di vie etrusche ponendo in comunicazione Roma con Saturnia. Attraversava notevoli centri intermedi “rasenna” (Tuscania, Norchia, Blera, Barbarano) ed altri minori ancora, prima di perdersi nel suo territorio. Frequentata principalmente, nelle sue ultime fasi di esercizio, nei pellegrinaggi diretti all’Urbe, dalle genti provenienti dalla costa tirrenica, dalla Francia e dalla Spagna, dopo la conquista della Terra Santa da parte “dell’infedele”, e ciò, più o meno, ininterrottamente, dal 1100 c.a. fino al 1600.
Il motivo della scarsa, o inesistente, urbanizzazione di questa vasta area va ricercato, ma è dovuto principalmente ai perversi postumi della romanizzazione, alla posizione marginale sul territorio rispetto alla ripartizione regionale e provinciale. Ma il privilegio delle strade Cassia ed Aurelia, deve aver giocato un certo ruolo, a scapito della più povera consorella Clodia e dei territori attraversati. Le due maggiori consolari romane ebbero la “meglio”, dirette con più successo a nord verso centri nevralgici che le nuove conquiste avevano assicurato futuro e maggior sviluppo. Alcuni piccoli centri di questa provincia etrusca, di cui si conosce soltanto il nome attraverso la letteratura latina o da reperti archeologici, seguiranno conseguentemente il destino della loro principale via di comunicazione e sprofonderanno inesorabilmente nell’oblio.
Al tempo dei suoi più gloriosi fasti storici, l’area era posta sotto l’egemonia della vicina lucumonia Tarquiniese, ed avviata verso ben altri destini. Ma subì lo stesso declino e sorte del Centro etrusco, ridotto da Roma a “sgrassabile” strumento provinciale, con imposte forniture di grano, tela e legname, nonostante aver elevato l’Urbe di rango e classe, con la propria civiltà e con l’apporto di una sana e lungimirante politica di ben due re. In altre circostanze “Tarchna”, come in etrusco veniva chiamata la capitale del popolo Rasenna, avrebbe oggi dimensioni di una moderna metropoli, così come pure altri Centri dell’Etruria travolti e predati, preclusi ad ogni sorta di sviluppo dalla furia ed egemonia romana: Tuscania, Bisenzio, Norchia, Mantura, Veio, Faleri Veteres etc., oggi piccoli suggestivi centri provinciali o soltanto semplici siti archeologici.
Non sono disponibili studi sul vecchio maniero, posto sul Traponzo, ma solo frammentarie notizie, i cui ruderi, così suggestivi, ancora emergono pittorescamente, soffocati dal verde e dal declivio collinare in lento scivolamento. Ma pur spingono maggiormente il più incauto trekkista all’avventura ed a visite rischiose. Forse nel mille o poco prima, ma su un preesistente insediamento etrusco, vennero edificati la rocca, le due pievi ed il castellare. Preciso appare il compito, di tutela e controllo sulle sottostanti vie di comunicazione, conferito dall’ignoto committente al complesso. Nell’undicesimo secolo il nome degli Spampani o Pampini signori di Tuscania, era legato al castello (Res – cose dei – Pampani) che poi, man mano, passò di signoria in signoria, sino a giungere tra le proprietà della prepotente famiglia dei Di Vico, prefetti di Roma, di origine germanica.
I VARI PASSAGGI DI PROPRIETA’
Nel 1170 della Rocca ne diviene proprietario Guitto di Offreduccio, nobile Vetrallese, che successivamente la offrì in dono alla città di Viterbo. Più tardi viene acquistata da due nobili tolfetani, Nicola e Guido. Ma i predetti signori, per comportamento scorretto nei riguardi dei pellegrini transitanti sulla Via Clodia, in marcia verso la città eterna, suscitarono le ire di Papa Innocenzo III che, messili alle strette, per non perdere il castello, li costrinse a pattuire un atto di sottomissione. Nel 1211, nel corso di una guerra tra Tolfa e Viterbo, Grezzo, signore di Tolfa, si insedia nel maniero con i propri figli e con i parenti di Pietro, figlio del predetto Nicola. Successivamente diviene oggetto di dispute tra le nobili famiglie viterbesi dei Gatti e dei Cocco. Nel 1221 il castello è conquistato da Nicola Cocco che ne sottrae la proprietà a Pietro Cola, seguace della fazione dei Gatti. Pietro, imprigionato, viene gettato in un pozzo entro le mura castellane. L’anno successivo i Gatti tentarono di impossessarsi del castello ma vennero respinti dai Cocco, con l’ausilio del senato romano. Ma successivamente torna di proprietà di Pietro Cola, che si era rifugiato nella vicina Tuscania. Ma i Romani conquistarono il sito nel 1228 che manterranno ancora, malgrado il tentativo di Federico II e del papa Gregorio IX, di strapparne loro la proprietà.
Nel 1254 divengono proprietari della rocca i Di Vico, Prefetti di Roma, che la terranno per oltre un secolo, malgrado le richieste di restituzione di Cola di Rienzo e la sconfitta subita da parte di Pietro Farnese, che ne contendeva il possesso. Nel 1434 il maniero viene concesso a Francesco Sforza, nominato prefetto romano per passare, nel 1442, al cardinale Ludovico Scarampi Mezzarota. Nel 1456 Papa Callisto III lo cede all’Ospedale di S.Spirito in Saxia ma, nel 1471, torna alla Camera apostolica e rientra, successivamente, nei possedimenti del S.Spirito. Nel frattempo la rocca aveva subito una progressiva decadenza, favorita da un terremoto nel 1349, mentre già una imperversante malaria in atto, ne aveva decimato gli abitanti.
Nel 1587 c.a. vengono effettuati alcuni restauri al castello, a cura di Giovan Battista Ruini, preposto generale dell’Ospedale di Santo Spirito. Ma la sua sorte era ormai segnata ed il suo definitivo declino sancito dalla costruzione di una nuova rocca nelle sue vicinanze.
Per una serie di motivi e funzioni strategiche, poi venuti meno, è intrapresa la costruzione della nuova rocca lungo il torrente Traponzo, circa un miglio più a est del non più agibile vecchio castello. Ne sono giustificati e validi motivi il crollo di parte delle infrastrutture della preesistente rocca e l’identificazione, nei suoi pressi, di una più vasta area, idonea ad accogliere un’imponente costruzione con servizi annessi e connessi, infrastrutture e, soprattutto, immensi latifondi agevolmente coltivabili; non ultima la possibilità di tracciare un nuovo tratto della via Clodia su un comodo e stabile banco di tufo, dalla sottostante valle all’altipiano fino a raggiungere la prossima Tuscania.
La rocca nuova si porta dietro il nome del vecchio castello “Respampani”. Correva allora l’anno 1607 ed il precettore del Santo Spirito, tal Ottavio Tassoni d’Este, affida l’opera all’arch. Ascanio Antoniotti. Il progetto era ambizioso e mirava alla creazione di un centro agricolo indipendente con tanto di governatore, un seguito di funzionari, pieve e pievano e un’insieme di famiglie contadine operanti, unico motore economico del complesso.
Ma il progetto stenta a raggiungere le autonomie economiche prefissate. Il castello verrà tenuto negli anni successivi da Fra’ Cirillo Zabaldani (*) , un uomo “arrogante, insolente, di mala condizione, misleale, spergiuro e traditore”, un tipo proprio raccomandabile come alcuni che di tanto in tanto la società ci pone dinnanzi. Presto il castellano, per ragioni economiche, sarà costretto a sospendere l’ultimazione dei lavori della rocca che, da allora, si presenta così, come è stato definitivamente abbandonato nel 1600. Il nascente prossimo, paese di Monteromano, aveva attratto la maggior parte della manodopera contadina del comprensorio snobbando il Respampani, il suo signore e l’offerta di lavoro proposta. Ci tramandano che un’osteria in Monteromano, unico svago della zona, attrasse di più i contadini e fu principale motivo di scelta. Ma c’è da giurare che non poco influenzarono la gente le non trascurabili doti, qualità morali e caratteriali dello Zabaldani. Il lavoro della terra, a quel tempo molto pesante, insopportabile poi sotto il comando di un padrone piuttosto infame ed arrogante.
I lavori del maniero non verranno più terminati e l’immobile verrà lasciato così, come ancora oggi ci appare.
(*) – Estraneo a quel S.Cirillo che ebbe una lunga storia con i microbi…
Scendendo la carrareccia dalla nuova rocca Respampani si giunge nella valle del Traponzo al Ponte di Fra Cirillo. Il nome della struttura deriva dal precettore citato, mentre quello del torrente dal latino “tripontium”, luogo con “tre ponti”, che presumibilmente esistevano posti su ciascuno dei corsi d’acqua sottostanti. Ma nessun ponte romano vi esiste oggi, mentre è certo che le costruzioni dovevano superare i due fossi, il Rigonero ed il Leia, ed il torrente Traponzo.
Il nostro ponte è percorso dalla Via Clodia. L’opera è stata realizzata su un’arcata in dura pietra locale a foggia di “schiena d’asino”. Lastricata con grossi ciottoli del sottostante fiume, tra le sue strutture ospitava un altare, ancor oggi in parte conservato (per questo veniva anche chiamato ponte della pietà). Una leggenda metropolitana racconta che l’opera fu realizzata in una sola notte, intorno all’anno1661. L’opera ancora oggi, in ottimo stato di conservazione, assolve brillantemente il suo compito. I suoi piloni hanno brillantemente retto il logorio delle acque “chete” per oltre quattrocento anni, malgrado anche spaventose piene talmente intense e devastanti da incutere paura alla sola vista e tali da essere avvertite a distanza da un assordante rombo di acque infuriate, travolgenti, con alberi ripariali imponenti e qualche esemplare di bestiame brado al seguito.
Purtroppo ciò che il “Fra Cirillo” non potrà superare è e sarà il vandalismo delle nuove generazioni, che hanno cominciato per diletto a gettare nel Traponzo le pesanti strutture parallelepipede delle fiancate del ponte, beandosi del tonfo che queste producono nell’impatto con l’acqua.
Dal volume “Memorie istoriche della Città di Corneto“ del Valesio, traiamo un singolare ed interessante fatto di cronaca “nera”, del 1346. Attori gli allora personaggi della Famiglia dei Di Vico, signori “pro-tempore” della Rocca Respampani:
FRANCESCO DI VICO- prefetto, figlio di Giovanni 3°, la sua vita non poteva non essere orientata da tanto padre. Francesco crebbe e respirò l’aria delle fazioni, delle lotte baronali, delle battaglie politiche. Venne spesso dato in ostaggio e, proprio in questa veste e su ordine del tribuno, lo troviamo nelle mani di Cola di Rienzo a garanzia del mantenimento della quiete in Roma.
Nel 1346 ebbe il suo battesimo di fuoco partecipando in armi ad una campagna contro i baroni romani ribellatisi a Cola: al momento del pranzo venne disarmato ed imprigionato con il padre.
L’anno seguente venne dato nuovamente in ostaggio a Cola per garantirgli la restituzione da parte del padre Giovanni del Castello di Respampani. Nel 1355 è in ostaggio dell’Albornoz per garantire la restituzione delle rocche di cui suo padre si era insignorito.
L’Albornoz valorizzò il giovane Francesco, nominandolo suo capitano, con il compito di mantenere la pace nelle città della Marca. Nel 1370 Urbano V° gli proibì di duellare con Francesco Orsini in una disputa nata per i soliti rancori esistenti tra i baroni romani. Nel 1375 è signore di Viterbo e due anni dopo, ribellatosi, sobillò il popolo romano al fine di creare sconcerto e malumore.
Papa Gregorio II° stipulò con Francesco un onorevole accordo di pace. Nel 1387 fu ucciso in un assalto armato alla città di Viterbo delle truppe del Cardinale Tommaso Orsini. Nel corso della battaglia Francesco venne riconosciuto da un certo Palino Tignosi, il quale lo inseguì, lo trafisse con una lancia e poi lo gettò da un profferlo.
Si racconta che la vendetta di Giovanni di Vico, bastardo di Francesco, sia stata orribile: riuscito ad avere nelle sue mani l’uccisore del padre, lo condusse nella Rocca di Respampani, dove lo fece ingrassare ben bene, nutrendolo lautamente. Quando gli parve a “tiro”, lo fece condurre nella piazza della Rocca di Viterbo, tagliò il suo corpo a piccoli pezzi, ancora vivo sotto i propri occhi, venne dato in pasto a certi mastini tenuti a digiuno per giorni.
La moglie, madonna Perna, gli partorì una figlia, Giacoma, che venne tenuta per lungo tempo in ostaggio di Urbano VI °.