Gruppo numeroso e compatto oggi presente, munito in particolare di nutrita rappresentanza femminile, che aveva equivocato sulla denominazione della Selva. Ma poi si è chiarito che si trattava di un trek nella Selva del Lamone e non già in quella dell’Amore, ormai chimerica destinazione per qualcuno di noi!
Eppure dopo alcune “innocenti” vittime peraltro subito consenzienti, la passeggiata si è svolta “regolarmente”, con grande soddisfazione dei partecipanti … sentieri tra rocce laviche ricoperte di muschio, murce, lacioni, angoli fioriti, verdi alberi contorti sui cui rami ha piantato radici il viscum album, con il caratteristico rigonfiamento nell’intersezione con la pianta ospite. Poi rose “crepanti”, “crepate” o “crepande”, e pranzo sotto lo spento ma vigile vulcano di Semonte, tra circhi equestri... e poesie spinte!
Pomeridiano transito nel villaggio etrusco di Rofalco, dopo un contorto sentiero da sogno. Poi la solita amica pioggerella primaverile, a cui ormai ci teniamo particolarmente, ed infine foto ad una meravigliosa cascata tenuta “nascosta”, il Salabrone.
Circa gli aspetti geomorfologici della Selva, ardua si presenta, l’esposizione in sintesi, di un periodo di milioni di anni di evoluzione geologica della regione in esame, cosi eterogenea dal resto del territorio italiano. La crosta terrestre qui è stata, nel suo passato, particolarmente soggetta a fratture e tensioni, determinate dal lento, ma continuo innalzamento del rilievo Appenninico, sospinto dalla pressione che il continente africano, mosso alla deriva “dei continenti”, esercita sulla soglia terrestre dell’Europa.
Il territorio del parco della riserva del Lamone, come del resto tutto l’Alto Lazio, oltre 110 milioni di anni fa (Era terziaria) era completamente ricoperto dal mare, il suo basso fondale era ricoperto da argille e sabbia. Soltanto nel Pleistocene, prima fase dell’Era Quaternaria, la sua struttura superficiale ha subito radicali cambiamenti che ha prodotto pressappoco l’attuale aspetto della Selva. Ma la principale artefice della sua tormentata superficie, seppur a breve distanza dal gran complesso vulcanico del Lago di Bolsena è, senz’altro, l’attività eruttiva del “cono” di Latera, e di un centinaio di piccoli altri crateri, esplosi a catena qua e la, che sono stati individuati nella zona, tra cui annotiamo in particolare, al centro del Parco, quello di “Semonte”.
Tutta l’area, sconvolta da intensi movimenti tellurici, che hanno prodotto numerose fratture della crosta basaltica, ha permesso a masse laviche sotterranee di risalire e sospingere gas vulcanico verso la superficie, che fuoriuscendo ad elevata pressione dalle crepe, formatesi a macchia di leopardo, ha espulso porzioni di roccia lavica solidificata. L’accumulo di queste scorie laviche (murce), lasciano supporre un’attività temporanea di ciascuna frattura. Il risultato finale è ciò che oggi sorprendentemente si presenta, immutato, sotto i nostri occhi, un territorio di 2000 ha circa, letteralmente ricoperto da cumuli di rocce sconvolte. Una varia e caparbia vegetazione che ha piantato radici vari metri sotto colonizzando tutta l’area. Due corsi d’acqua, a nord il fosso del Crognoleto, ed a sud, il torrente Olpeta, emissario quest’ultimo del Lago di Mezzano.
Parleremo del primo e più importante toponimo della Selva. Il termine “Lamone” sembra che questo derivi da “lavone”, ovvero spazio ricoperto da colate laviche: Ma la denominazione potrebbe anche attribuirsi ad Amon - Ra divinità dell’antico Egitto (a Roma associato a Giove “Ammone”), che in lingua egizia significa “nascosto”, proprio come la Selva del Lamone!
Da testi a cura della Riserva Naturale del LamoneLe prime attestazione dell’uomo nella Selva sono testimoniate da industrie litiche di superficie del Paleolitico medio, rinvenute nelle località di Ropozzo e Cavicchione. Poi è la volta della cultura del “Rinaldone”, che ha lasciato nel Lamone e nei suoi immediati dintorni molte testimonianze, tra cui importanti necropoli, caratterizzate da tombe cosiddette “a forno e a grotticella”, come quelle del Palombaro, Gottimo, Pantalla, Valle della Chiesa, Saltarello e Naviglione. E’ probabilmente questo, il periodo in cui si sviluppa una forma di insediamento diffuso che interessa l’intero Lamone. Una strategia insediamentale che si protrae per tutta l’età del Bronzo con villaggi, cinti di muraglioni difensivi, costituiti da capanne di legno con coperture in frasche, edificate su bassi muretti di pietra. Intorno al X secolo si assiste all’abbandono dei siti e ad una dinamica demografica di concentrazione delle genti verso pochi insediamenti principali (inurbamento). Un processo che darà vita ai grandi centri proto urbani e urbani di età etrusco – arcaica, nel caso del nostro territorio, Vulci. Per il periodo etrusco resti di frequentazione sono riconoscibili, per il VI secolo a. C., nelle aree limitrofe alla Selva (Naviglione); mentre nella seconda metà nel IV secolo a. C. venne edificato l’abitato fortificato di Rofalco, con il suo potente sistema difensivo costituito da un aggere e muraglione di cinta in opera a secco.
Nel periodo romano il territorio del Lamone viene quasi del tutto abbandonato, mentre nelle pianure circostanti si diffonde il latifondo.
Dopo la caduta dell’impero romano il Lamone venne ricompresso nel territorio della Tuscia Langobardorum. Una necropoli longobarda è stata indagata in località Campo del Nocio, nei pressi di Valderico.
Durante il primo Medioevo, si assiste, in particolare nei pressi delle preesistenti fattorie romane alla fondazione di “Castra” fortificati. In particolare l’incastellamento interessa la zona di Valderico, Casali di San Pantaleo, Prato di Fra Bulino, Santa Maria di Sala e Sorgenti della Nova. Tutti questi siti risultano abbandonati nella prima metà del XIII secolo, quando la signoria del territorio passò ai Farnese.
Qualcosa sul brigantaggio
Per la sua caratteristica di selva intricata ed impervia, ricca di nascondigli e zone di confine, oggi di Regione, un tempo di Stati diversi, il Lamone per lungo tempo ha offerto rifugio a briganti, contrabbandieri ed altri disperati. Soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, la Selva del Lamone, divenne sede di bande ben organizzate, che taglieggiavano “discretamente” i proprietari terrieri, garantendo loro la sottomissione dei lavoratori. Chi stava alla macchia non era certo un chierichetto, talvolta autore di delitti sanguinari e feroci, spesso contro i “traditori” od altri banditi per la difesa del “territorio”. Moltissimi sono i personaggi che nei secoli hanno lasciato il ricordo brutale delle loro gesta: Saltamacchione, Federici, Biscarini, Pastorini, Marintacca. Ma non mancavano allora omicidi eccellenti, anche nel lontano passato si ricordano fatti di sangue, come quello clamoroso perpetrato da un nobile dotato di immunità, il conte Orso Orsini di Pitigliano che, nel Lamone, per gelosia, uccise, nell’inverno del 1573 Galeazzo Farnese.
Ma le più famose doppiette del brigantaggio locale, a noi più vicine …, furono senz’altro Domenico Biagini, Luciano Fioravanti, David Biscarini, Basili (Basiletto) e Domenico Tiburzi. Quest’ultimo, in particolare, con una certa “modernità” seppe creare un sistema di taglieggiamento dalle vere e proprie caratteristiche mafiose, calcolato sulle effettive disponibilità economiche dei taglieggiati, e con piena garanzia di protezione.
(Carta e sentieristica fornita dall’Ente Parco – Reg. Lazio)
E mentre passiamo in rassegna gli smarrimenti più celebri registrati della Selva, invitiamo i Tibur’s che volessero ampliare la propria conoscenza sul “Lamone”, a richiedere al Centro visite Parco di Farnese – tel. 0761 458861 - l’utile Guida recentemente redatta. Cominciamo con l’ultimo comma riportato sull’articolo redatto in proposito dal Baragliu:
“Così la Selva entra nella letteratura, o forse rientra, poiché nulla è più simile al Lamone della selva oscura, selvaggia ed aspra e forte, dove si perde Dante, il padre di tutti gli smarriti!”
“Una leggenda metropolitana che circola, tra le tante, sulle bocche di molti e negli articoli di qualche rivista, è quella del gruppo di turisti smarritisi nella Selva del Lamone, assieme alla guida. E’ questa l’ultima versione di un mito ricorrente che affonda comunque le sue origini nella realtà. Il Lamone è una Selva nel vero senso della parola. Aspro e selvaggio, dominato da rocce cupe che formano strani labirinti circondati da arbusteti impenetrabili, in cui è facile perdere la nozione del tempo e dello spazio. Questo bosco sembra improvvisamente divorare, fino a farli scomparire, sentieri, segnali e certezze. Molti, anche le persone più esperte, d’improvviso possono trovarsi angustiati dall’inenarrabile sensazione di essersi smarriti nella selva oscura. Capita a turisti sprovveduti, a raccoglitori ammaliati da una sequenza di funghi, che invita irridente ad addentrarsi negli angusti penetrali di qualche anfratto, dietro la promessa, leggi permettendo, di una raccolta pantagruelica, da esaltarsene per anni con amici e non; capita al capraio, vecchio fauno della selva, che racconta di conoscere cose che altri nemmeno immaginano; capita …
E così, anno dopo anno, si allunga la lista degli smarriti, causando talvolta gli allarmi anche giustificati, chiacchiere, racconti e alimentando un mito, duro a morire. Succede quindi che non sempre perdersi è un fatto casuale; ma, in qual che caso, pianificato. Per raccontare di averlo fatto, come se fosse un rito di iniziazione, la sera al bar o attraverso i mass media.
La Selva del Lamone è ancora un luogo dell’immaginario collettivo, in cui si può bene andare, cercando strane presenze o tracce di un mondo utopico e leggendario. Si favoleggia di sibille, di UFO, di briganti, di galline con pulcini d’oro nascoste nelle fossette delle possenti muraglie dell’abitato etrusco di Rofalco. Si favoleggia ed intanto si continua a cercare, nella speranza, mai sopita di un incontro unico ed esaltante. Si favoleggia ed intanto si continua a smarrirsi. Lo confesso, l’ho fatto anch’io! Come tanti, anche più importanti e famosi di me!
Il primo a farlo, sembra, sia stato un re favoloso. Il re Ammone che, addentrandosi nel bosco per cercarvi bestiami dispersi, si perse anche lui e finora, per quanto ne sappiamo, non ne è ancora uscito. Quando un re si muove, lo sanno tutti, lo cantano i poeti; se poi si perde o scompare misteriosamente, la fama raggiunge gli estremi confini del mondo. La vicenda si riveste degli aloni del mito e della poesia. E mito e poesia hanno accompagnato a lungo l’uomo del Lamone. Per questo, per secoli, forse millenni, si è parlato della Selva di Ammone, divenuta poi Amone e quindi la selva del Lamone.
Tempi favolosi quelli in cui si poteva benissimo credere, che la smisurata caterva di massi plumbei, accumulati in strane conformazioni, siano stati qui portati dalle acque urlanti del Diluvio e quanta umanità avrebbero qui potuto generare Deucalione e Pirra! Oppure, questi cumuli di pietre possono benissimo essere il risultato di uno scontro titanico, forse quello dei giganti con il tonante Giove. Potere incommensurabile di questo Dio che può, se vuole, far piovere sassi.
Queste storie non ce le siamo inventate noi, tanto per arare con neri caratteri i prati bianchi dei fogli, ma le troviamo nascoste in mille cronache e relazioni che per quasi un secolo, a cavallo tra il Cinquecento e Seicento, scrivono alcuni maggiorenti della città di Castro e, superato il secolo dei lumi, in una prolissa arringa dell’avv. Luca Ceccarini, che difende due campagnoli accusati del furto di una innocente agnella. “Saxa pluunt hic ausilio Iove missa per l’auras! Predones, quibus oppressit Lamonis arvis”, scriveva il dott. Mariano Grezzi, nel 1610.
“Il deserto” nominato Ammone.“Questo “deserto” dista circa 15 miglia, e tutto il sito è coperto di pezzi di pietre lisce di varie grossezze fra le quali sono cresciuti arboreti di elci e sorbi; niuno ci pratica perché alcuni che ci sono entrati cercando bestiami spersi, non sono più tornati, credo che questa Selva fosse anticamente consacrata al Dio Ammone, non già che un re Ammone vi si potesse perdere dentro e ci morisse”. Si legge in una anonima cronaca senza data.
Nella sua “Informazione e cronica della città di Castro”, Benedetto Zucchi così scriveva il 10 novembre 1630 :
… una macchia chiamata il Lamone quasi tutta di elci e cerque , tutta sassosa con pietre spezzate una sopra l’altra, che si puol dire per esempio sia come un mucchio di sassi, la quale macchia è impenetrabile, e se uno vi entra, ancorché sia del Paese, con difficoltà vi può trovare la strada d’aver da uscire; luogo più di capre che da altri animali, per il che una delle due si va congetturando, non essendovi altra memoria in contrario, o che sia stato quel luogo un monte fracassato dal terremoto, o che al tempo del Diluvio i detti sassi si sieno radunati insieme in tanta quantità in questo luogo”.
Il deserto, il luogo d’orrore, l’incredibile caos è sempre pronto ad accogliere lo spaurito viaggiatore che, suo malgrado vi si addentra, portandolo ad esperienze traumatiche che riempiranno, nei racconti, le sue lunghe serate attorno al camino. Viaggiatori spesso di rango, di cui dopo secoli si parla ancora come Annibal Caro, il famoso traduttore dell’Eneide di Virgilio. E lui che vive l’esperienza, in prima persona, di una drammatica traversata, oppresso da una terribile sensazione di smarrimento in un labirinto oscuro, che come quello dedalico di Creta, non lascia speranza di uscita. Alla fine, “come per ciarbottana” appare uno spiraglio di salvezza. Per fortuna!
Altrimenti, col Caro, avremmo perso la sua bella relazione scritta il 13 ottobre 1537 da Castro ai familiari di Mons. Gaddi:
“Entrammo poi in una foresta tale, che ci smarrimmo; tempo fu ch’io credetti di non avere mai più a capitare in paese abitato, trovandone rinchiusi e aggirati per lochi dove l’astrolabio e ‘l quadrante vostro non arebbono calcolato il sito de’ burroni e gli abissi de’ catrafossi in che ci eravamo ridotti. E se avesse veduta la nostra guida. Vi sarebbe parsa la smarrigione e ‘l baloccamento di naturale. Pensate che Vittorio la botò a Santa Drianna, la quale, dice egli, ch’era una fata che con un gomitolo di spago trasse dal larbrinto un certo Tisero figliolo di Manosso. O quivi avrei voluto io voi, messer Giorgio, con la vostra colèra acuta e co ‘l vostro stomaco impaziente, a vedervi strascicar dietro da un balordo per quelle catapecchie, senza sapere dove vi foste. Né dove, né quando, né che v’avreste a magnare. O come vi sarebbe venuta la senapa al naso! E che strani visi areste veduti fare a noi altri! Io per me mi condussi a tanto di fame, che le peruzze e le nespole m’ebbero a strangolare. Ma tanto ci avvoltacchiammo a la fine che vedemmo, come per ciarbottana, un poco di piano. E tirando a quella volta, meravigliosamente si presentarono alcuni morbisciatti, che ne diedero lingua e indirizzo per venire dove siamo”.
Vanì 06/04/09
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