Le tre località, Sovana, Pitigliano e Sorano-Vitozza, presumibilmente già abitate, senza soluzione di continuità, dalla preistoria fino ai nostri giorni, appartennero dal 7° al 5° seolo a. C. alla vicina Lucumonia etrusca di Vulci, per poi rendersi per un certo periodo, indipendenti grazie al “placet” della Repubblica Romana, per la presenza sovanese, all’interno della lega di città etrusche, che intervenne a favore del primato di Roma sul Lazio.
Delle tre località, la maggiore al tempo “rasenna”, per “fonti dirette”, fu certamente Sovana, l’etrusca “Svea” (lat. Suana), di cui si è conservato il toponimo grazie all’etnico portato da un personaggio nelle pitture murali della tomba Francois di Vulci: tal “Pesna Arcmsnas Sveamach”, che è rappresentato mentre soccombe sotto i colpi di pugnale dell’eroe Vulcente “Rasce”. Tali immagini vogliono tramandare l’alleanza della città di Sovana con la Roma dei Tarquini, e la conseguente, inevitabile rappresaglia dell’egemone popolo vulcente.
Sovana presenta, nel suo territorio, imponenti testimonianze archeologiche (tombe a tempio dorico, la Pola e la così detta “Ildebranda”, gli insediamenti rupestri tra i torrenti Folonia e Calesina, Poggio Stanziale etc.), molto analoghe alle tombe rupestri di Norchia. Più avara l’area attorno a Pitigliano, ove sono tornate alla luce piccole necropoli e tombe isolate (presso Naioli, nelle Cave del Gradone e nella Valle delle Fontanelle, nelle località di Marmicellli, Crocignano, Terralba e Piandarciano).
Sorano e Vitozza, malgrado non eccessivamente note al “mondo archeologico”, per la mancanza di evidenti emergenze, devono aver consentito, con relativa facilità, il sorgere di popolosi nuclei abitativi orbitanti attorno alla valle del Lente, per la opportuna presenza di innumerevoli grotte sulle coste dei propri rilievi collinari. Le numerose cavità naturali qui presenti sono state abitate ininterrottamente dall’uomo preistorico fino a tutto il diciottesimo secolo. Per questo motivo non ci sono pervenute tracce evidenti del passato, se si escludono i vari colombari (II sec. a.C - I sec. d. C.) realizzati nelle tombe attorno alla valle antistante Sorano, ove una di queste di appena 15 metri quadrati, ben enumera, sulle pareti, 550 nicchie, che potevano ospitare 2200 urnette cinerarie!
Presso la terrazza di San Rocco, ove è stata eretta l’omonima chiesa, doveva sorgere un area cultuale. Sotto questa, alcune grotte, tra l’altro una ospitava, in vari ambienti, un’interessante fornace per la produzione di mattoni. Questa area era collegata a Sorano, attraverso una bella tagliata, mentre sotto l’attuale cittadina doveva sorgere l’abitato etrusco.
Più enigmatico e particolare si presenta l’insediamento di Vitozza (o Monte Vitozzo). La così detta “Città perduta”, la Matera dell’Alta Maremma. Presenta, questa, fortificazioni medievali, tra cui la “Roccaccia”, varie chiese - S.Quirico e la “Chiesaccia” etc.-, circa trecento caverne portate alla luce ed un insolito colombario con annesso forno crematorio.
L’insediamento fu certamente abitato dall’uomo fin dal paleolitico al periodo appenninico del “Rinaldoniano”, dal periodo del ferro ed etrusco fino quasi al 1800 della nostra era. Fu sotto la Signoria degli Aldobrandeschi, dei Conti Orsini, poi territorio della Repubblica di Siena e del Granducato di Toscana.
Vitozza è boschi, sentieri etruschi inerpicanti, crepe e ricoveri tra rocce, imprevedibili cascate d’acqua, sorgenti dalle viscere della terra e, quando pensi di averne visto tutte le sue caratteristiche, ti accorgi che c’è sempre qualcosa sfuggita all’attenzione, perché più nascosta e misteriosa.
Dunque non è affatto semplice carpire completamente tutti gli aspetti della nostra città, abitata da più popoli, diversi tra loro, attraverso le emergenze superstiti dei suoi mille tormentati secoli di vita. Ed ora appare sfuggevole, ora evanescente, selvaggia, irraggiungibile come un’ombra, e quando pensi di averla a portata di mano finisce per scomparire. Ma noi tenteremo oggi di svelare buona parte dei segreti del luogo.
Le sue caverne, abitate dal tempo immemorabile dall’uomo preistorico e, senza soluzione di continuità fino al XVI secolo, conservano ancora al loro interno il sapore della vita. Sono ancora riconoscibili le pareti fuligginose dei focolari domestici, dove a fianco erano poste delle madie a giorno, adibite alla conservazione degli alimenti, sorrette da impalcature lignee fissate entro scansie. Dal cielo pendevano, affisse ad una corda traversa, carni salate od affumicate ed altro, poste in alto per sfuggire ai predatori casalinghi.
La zona notte veniva separata da un alzato in tufo naturale od artificiale che nascondeva pudicamente un giaciglio etrusco: la rapazzuola, su cui era stesa della paglia. A fianco di questa, robuste cassapanche in rozzo rovere, raccoglievano un corredo povero, grigie lenzuola in tela, passate di madre in figlia, coltri ricavate dalla concia di pelli di coniglio, pecora, tasso o volpe, o realizzate con indumenti dismessi. La cucina era posta al centro della caverna, proprio sotto ad una aperture praticata sul soffitto, che permetteva il ricambio dell’ aria e probabilmente la raccolta di acqua piovana, che andava a cadere entro grossi recipienti. Era questa destinata per le esigenze della famiglia. L’abitazione era condivisa dall’uomo con cani, gatti, polli e topi che piombavano sui resti del pasto gettati per terra dai commensali, litigandoseli.
Il paesino è appoggiato su uno sperone roccioso, a più strati emergenti di tufo, arenaria e basalto lavico. Le grotte disposte su due livelli distanti, iniziano e terminano ai piedi dei ruderi di due castelli medievali non coevi, posti nell’area “acropolare”. Ai manieri fanno buona compagnia i resti di una o più chiese, mentre un colombario del I secolo a.C., con annesso un terrificante forno crematorio a giorno, sulla parte bassa del paese, che sta a rammentare l’ultimo secolo di predominio dell’uomo etrusco. Ma, tornando a ritroso, possiamo citare età storiche e popoli che si sono succeduti nel passato sul colle, prima della formazione del popolo etrusco: età del ferro/facies villanoviana, le quattro fasi della civiltà del bronzo/uomo appenninico e rinaldoniano, età del rame, ere della pietra.
Ma la vita qui è ormai passata da tempo, centomila e più anni, si sono contratti nello spazio di un baleno, penetrando entro i “buchi neri” dell’eternità, lasciando a memento, emergenze, in alcuni casi assai scarse, di ciascun popolo che vi ha dimorato. Ma il luogo, per quanto desolato, dà l’impressione di essere costantemente vigilato dai suoi passati abitanti.
Sul bosco: ovunque è luce soffusa, luce sulla luce, sugli aceri ingialliti, sul tufo, sulle rocce sedimentarie e sui tappeti di foglie, stesi sui sentieri, che felpano il passo. I colori qui si mescolano magistralmente entro orizzonti dominanti che riflettono ed impressionano, abilmente, anche le più “scronde” digitali. Tra le foglie dei cespugli ripariali, balenano immagini di folletti, da noi sospinti alla corte del Dio/re Acheloo.
Mentre noi penetriamo attraverso la porta carraia del paese, sotto la garitta del posto di guardia, disposti in fila indiana, defilati, avanti al castello, visibilmente attratti dall’aspetto del luogo. Ma, ormai, non c’è più nessuno ad intimarci “alt chi siete donde venite dove andate”! Dei castellani dei gendarmi delle gentil donzelle … non v’è traccia, ma anche di altri, non c’è neanche del bestiame brado in giro, tranne qualche evidente zampata di cinghiale ed escrementi di volpe sul terreno che lasciano supporre la fugace presenza di questi animali.
Se non fossero quelle suggestive emergenze a ricordarci il legame di Vitozza con il mondo, chi potrebbe sospettare che anche qui la vita un tempo è passata! Poi tutto è stato sacrificato sull’altare di una precoce globalizzazione, inarrestabile e vorace, che ha cominciato col cancellare gli “stracci più piccoli”, e che presto fagociterà ancora etnie, linguaggi e culture.
Per storici e filosofi, sarà un bel daffare per ricostruire e tramandare la storia!
Giunti al termine del basso sentiero del paese, un invitante tagliatina etrusca permette di scendere giù verso il fiume Lente. Questa stradina ha una fastidiosa ma utile canaletta centrale per lo scolo delle acque, che disturba il passo del gruppo ambulante e ne mette in crisi la stabilità. E’ frutto questa di un recente restauro che ne ha messo in luce un ulteriore tratto sepolto. Ma il sentiero allontana di un po’ la meta: le sorgenti del Lente.
E noi abituati ormai alle sorprese, non ci meravigliamo più di tanto di dover impegnarci a riaprire un bel sentiero non più percorso da anni. E qui che si varrà la “nobilitate” del cinghiale, che fiutata la mal parata, si pone in testa al gruppo, con andare serpeggiante, fiutando e riapredo i passaggi più convenienti, ritornando, a volte, sui propri passi.
E già s’ode il mormorio di alcuni, cui era stato assicurato un percorso facile, che manifestano il proprio dissenso e panico. Ma giunti a fiancheggiare il Lente, la bellezza del luogo invita un po’ a dimenticare e riflettere. E poi la vista di una dismessa e minuscola centrale idroelettrica ricoperta di edere e di due suggestive cascate d’acqua lascia definitivamente tutti ammutoliti.
Un guado piacevole ed invitante ci porta sotto le due imponenti grotte sottostanti le cascate, da cui il Lente viene alla luce, emettendo i primi vagiti sordi e rilassanti. Qui una piccola pozza d’acqua ospita ancora minuscole e graziose ile verdastre punticchiate di macchioline rosso scarlatto sulla pelle che, alla nostra vista, si dileguano rapidamente mostrando di non gradire di mettersi in posa. Hanno mutato, questi bàtraci, il colore della pelle per mimetizzarsi tra le alghe rossastre presenti, e sfuggire all’ingordigia delle avide bisce che scivolano, pur esse mimetizzate, tra l’acqua del fiume, i sassi e gli umidi muschi. Ed è uno spettacolo insolito, atroce e violento, assistere alla cattura di una indifesa ranocchietta. E quando il rettile, dopo una lunga e lenta marcia di avvicinamento, si porta al cospetto della preda e si blocca fissandola negli occhi, con le sue pupille di fuoco, quasi per incanto la preda viene colpita da un istintivo raptus, un arresto delle funzioni vitali che paralizza i suoi arti, quasi a conoscere il suo ormai ineluttabile destino. Tante volte ho risparmiato la vita alle prede simpatiche, secondo una mia regola morale di parteggiare per il più debole, ma poi qualche biologo mi ha spiegato che la lotta per la vita è norma nel mondo animale e che, l’uomo, non deve affatto intervenire.
Proseguendo sulla riva sinistra del torrentello posto sulla nostra direttrice di marcia, che si immette nel fiume Lente e che sale più in alto, restiamo attratti da un bosco e sottobosco sempre più belli ed inviolati, ma dobbiamo di nuovo guadare per portarci sotto il sentiero che, salendo un erto colle, ci porta a valicare la sella di Vitozza.
Qualche piccolo problema sorge nel ritrovare il passaggio, quasi ad arte mascherato dalla Forestale o dall’incipiente sottobosco non più frequentato, e da foglie morte.
E’ forse meglio non rispondere al mormorio di qualcuno che si pensa perduto. Comunque la guida ordina l’arresto della marcia del gruppo, per effettuare, in solitario, il “punto bosco”, percorrendo rapidamente e senza zavorra, o meglio, correndo in diagonale a trequarti costa fino ad intercettare il vecchio sentiero, a quanto pare scomparso o cancellato dal suolo. E qui vien fuori tutta la sua abilità. Con attente osservazioni del suolo, dell’alta costa che preclude il valico e di ogni altro particolare elemento utile, rintraccia finalmente il percorso di risalita. Un rapido compattamento del Tiburzi e quindi presto presso l’area ristoro.
Nel pomeriggio una veloce visita al grazioso paesino di Sorano, ai suoi innumerevoli colombari, ed alla terrazza di San Rocco, ove si ammira uno stupendo panorama sul Lente su cui sembrano poggiare le pendici su Sorano.
VANI 06/12/09