Dalle pendici del superbo Monte della Tolfaccia, su cui fu eretta la città di “Tolfa nova”, inzia il percorso odierno. Sfioriamo il particolare bianco fontanile della Fontanaccia che, malgrado lo spregiante toponimo, si presenta di bell’aspetto e, nelle ormai diffuse siccità, dispensa sempre acqua fresca di sorgente.
LA FONTANACCIA
Il luogo è anche noto con il nome di Giovita (sacro a Giove?).
Fitta nebbia frammista ad aria fredda ci accoglie al parcheggio adiacente il Fontanile della c.d. Fontanaccia mentre intenzionati di alleggerirci dagli indumenti di viaggio, ci vediamo costretti a grufare il fondo del portabagagli alla ricerca di qualche indumento invernale. Cappelli di lana, dismesso ciarpame e stracci da raccolta differenziata vengono provvidenzialmente alla luce, il freddo è servito …
Anche le quattro parole di apertura “sul luogo”che in genere vengono dette prima dell’escursione, vengono semplificate dal freddo perché occorre muovere le membra ed indurre il corpo a produrre calore.
Imbocchiamo quindi senza indugi la carrareccia, mani in tasca, verso il grande “rimessino”, trascurando sulla sinistra la ben nota ed interessante “villa rustica romana”. Breve sosta alle case di “argilla” costruite sul bordo del nostro sentiero. Vorrebbero rappresentare … ma sono solo un vago ricordo di quello che furono le case appenniniche.
Le case di argilla dei Monti della Tolfa .
A dire il vero le costruzioni si presentano ancora in buono stato di conservazione malgrado la deperibilità del materiale impiegato
Ma oggi, ancor prima di intersecare il solito sentiero di discesa per le Tufarelle, che porta diritto diritto alla meta, decido - nel frattempo che possa dissolversi la nebbia - di proseguire il giro allungando verso sud, intenzionato di intrecciare, con lieve ritardo, l’alveo del Fosso di Montejanni, nel punto in cui bel corso d’acqua si forma tra le amene conche collinari tolfetane. Ma il Gruppo si muove con relativa disinvoltura … ! Raggiunta la “sorgente” del Montejanni, frattanto dissoltasi la nebbia, l’angolo di recupero sul sentiero, che è indispensabile effettuare, si presenta ampio! Occorre guadagnare terreno.
Ma si aggiungono imprevisti handicap, una bassa e nervosa vegetazione di pero selvatico e biancospino, accompagna il torrente in secca che lacera indumenti e carne, rallentando l’andatura. Tra noi si muove una graziosa famigliola con al seguito due bambini in tenera età e costringerla ad un passo spedito, mi induce sensi di colpa. Ed io ho bisogno di allungare il passo, anticipare il “serpentone umano”, per poter scegliere a “vista” la più conveniente direzione.
Soventi richiami dal “fondo” impongono numerosi “stop”, che vanno forzatamente ad incidere sui “tempi” di percorso. Sarò costretto ad spostare la sosta pranzo in un luogo prossimo, non più nel magico Mondo di Peppuccio l’eremita?
(NdR: Mai come in questa occasione ci s' è resi conto che nome più adatto non poteva esser dato al ns "Cinghiale"!! Visto un bosco basso, fitto, denso di rovi e rami bassi ci si è gettato a capofitto e di gran lena! Nessun richiamo alla umana pietas per due giovani genitori con bimbi in braccio l'ha fermato! Ma ancor più bravi di lui furono i 2 prodi giovani e la felice prole!!)
Mentre procediamo avanti io, Lucrezia ed Alessandro, scorgo in alto, tra la vegetazione, una lieve e sottile striscia di argilla che potrebbe essere la crepidine di una carrareccia. Invito Ales di salire per verificare. Il mio sospetto è confermato, una comoda sterrata ci porterà tranquillamente entro le dodici e trenta alla necropoli delle Tufarelle. Quindi barra verso ovest, attraverso sterminati campi verdi, adornati da un’infinità di asfodeli in fiore, tappezzati di margherite ed anemoni appenninici . Presto ci troviamo sotto il costone delle Tufarelle, circondato da discutibili opere di recinzione.
Raggiunta finalmente la meta, rendo, come al solito un doveroso omaggio a quello che fu il Mondo di Peppuccio l’eremita, che ritrovo, malgrado il degrado ancora magico ed avvolto da aloni di mistero
IL FORNO
LA DISPENSA
L’ingresso della sua casa, realizzata entro una tomba etrusca, ricavata nella roccia di tufo. Qui avanti, alla veneranda età di 96 anni, è caduto in terra, ultimo volo nel mondo dei cieli. Il caso ha voluto preservare il corpo dell’uomo che nel cadere a terra ha trascinato dietro di sé la porta d’ingresso evitando che fosse deturpato da animali selvatici. Il cadavere fu infatti scoperto con ritardo. Persone e luoghi simili restano morbosamente legati tra loro anche ben oltre il decorso della vita terrena. E qui, da qualche parte, Peppuccio l’eremita in silenzio vigila le sue proprietà.
LA CASA
La “cerqua” che l’uomo utilizzava per prendere per il collo i cinghialotti “ammaialati” con un cappio discendente dall’alto, evitava così la pericolosa reazione delle scrofe che vedevano sparire i loro piccoli sull’albero. Dopo alcune ore, tornava per il recupero delle prede soffocate.
LA FORCA SUINA
LA PERGOLA DELL'UVA FRAGOLA
LA CISTERNA DELL'ACQUA
Un Eremita nel cuore dei Monti della Tolfa
Viaggio in Landrover alle TufarelleLivio Spinelli : A Severo e Franco miei compagni di viaggio .
Là pascolavano i bei buoi dal pelo lucente e dalla larga fronte, sacri a Helio Hyperione Dio del Sole, i bei buoi dalle dritte corna. Euriloco se incontreremo un gruppo di buoi, che nessuno, colto da funesta follia, uccida uno solo di questi! Ma esaurite le provviste - dopo che ebbero fatto i loro voti - sgozzati e tagliati i buoi, staccarono loro i quarti, li spalmarono di grasso e li disposero ancora sanguinanti sopra il fuoco.
E subito gli Dei fecero apparire prodigi: il cuoio delle bestie si muoveva, le carni cotte e crude mugghiavano intorno agli spiedi. S'udiva la voce dei buoi stessi uccisi. E tuttavia per sei giorni i miei compagni tripudiarono, perchè avevano preso a Helio i suoi buoi più belli.
Nel corso della mia vita ho viaggiato spinto da necessità di studio, ma innanzitutto dal desiderio di conoscere. Solo in anni recenti ho prestato più attenzione ai luoghi dove da sempre vivo. Di essi per lungo tempo non ebbi che una conoscenza superficiale e approssimativa, considerandoli - con eccessiva sufficienza - di scarso interesse. Gli edifici, le costruzioni i resti di memorie antiche e recenti mi apparivano come muti segnali indecifrabili: oscure ombre di un passato inquietante. L'accecante, primitiva bellezza di questi luoghi si trasfigurava per me in una storia velata dalle pieghe di un tempo mitico, di quando bambino apprendevo fatti, nomi, racconti, spesso deformati nella percezione di gente che non chiedeva né dava spiegazioni, accettando rassegnata ciò che la circondava. Per loro le cose erano così e basta. Non si facevano domande: cercare i perchè, i come e i quando era solo fatica sprecata. I bei nomi delle località, delle cose, dei fiori o degli animali venivano a volte storpiati, quasi con un senso di compiacimento, trasformando il meraviglioso mondo intorno, in un piccolo museo degli orrori; così Poggio Principe diventava proncio principe, salamandra ceramandola, lucertola lacerta, asino zumaro, passero passeraccio, coltello cortello, Tolfa torfa, Tarquinia tarquigna. Da questi Monti fin giù al mare scintillante, nel quale si affacciano, si coglie ancora l'eco di forze primitive: una tremenda bellezza, venata da una innata rassegnazione. Il timore di chi, per la prima volta, avverte la presenza di forze ignote, che salgono dalla Maremma, e che già gli etruschi nella loro premonizione cercavano di esorcizzare, offrendo sacrifici ai loro dei.
La nostra è una escursione a ritroso nel tempo, nel cuore dei Monti della Tolfa, a bordo di una Landrover, che arranca lentamente su sentieri sassosi e buche. Sotto il caldo afoso, nel primo pomeriggio di fine aprile, attraversiamo pianori brulli e moscerie di cardi selvatici, già bruciate dal sole. L'aria è immobile, non c'è un filo di vento, tutto tace. In un silenzio pieno di stupore osserviamo attraverso il vetro dei finestrini il paesaggio che va sempre più assomigliando a quello di migliaia di anni addietro. Sparsi lungo i pianori, al pascolo brado, incrociamo branchi di vacche maremmane, quelle dalle lunghe corna e dal pelo bianco, venute dall'Asia al seguito delle migrazioni dei popoli indoeuropei. Alzano per un attimo la testa e ci guardano mute, come da una lontananza di secoli, interrogandoci coi loro occhi grandi, e scacciando pigramente con la coda nugoli di mosche verdastre che ronzano attorno a loro. Disturbate dal nostro passaggio si fermano per un attimo, riprendendo poi a pascolare man mano che il nostro fuoristrada si allontana.
Come un fantasma ci appare in lontananza la sagoma, torva e furtiva, di un uomo antico a cavallo, col suo cappellaccio. Sempre in sella. E' un vagabondo dicono. Appare e scompare in questi luoghi come l'ombra di una divinità maligna. Un vecchio brigante, fuori tempo, come uscito da un dipinto, ma che a incontrarlo qui incute timore. Sanno che se gli capita l'occasione ruba buoi e cavalli, pecore o maiali, pronto forse anche a uccidere chi gli intralcia il passo. Arriviamo a una radura tra le querce che coprono una collinetta tufacea, piena di antri, in parte nascosti dalla vegetazione, nei quali riconosciamo i lineamenti di quella che una volta fu una piccola necropoli etrusca. Delle tombe di un tempo non restano altro che vuote caverne buie, desolate e minacciose. Un paio di metri sotto di noi, in uno spiazzo, diverse scrofe coi maialini dalla pelle striata si allontananominacciandoci coi loro sordi grugniti, impauriti dal nostro arrivo. Sono veri e propri maiali selvatici, allevati allo stato brado che, razzolando nei boschi, spesso incontrano cinghiali e con essi si incrociano. Da un antro oscuro, scavato nel tufo, esce Peppuccio detto l'Eremita, fiero e dignitoso, lo sguardo arcigno e la barba ispida, gli occhi penetranti. E' di poche parole. Rispettando l'antica sacralità dell'ospite, ci accoglie senza chiederci chi siamo e ci offre da bere del vino. Lo interrogo per conoscerlo e lui con antica sapienza mi risponde. Poco lontano da noi si sente il rumore dell'acqua che sgorga in un grosso fontanile bianco. Questi fontanili sono tipici della Maremma: lunghi, con due o tre vasche unite a gradino in forma di grossi parallelepipedi dai bordi massicci, alti poco meno di un metro, per consentire agli animali al pascolo di abbeverarsi. In capo al fontanile si erge un muretto a cuspide, a vederlo in lontananza ricorda l’altare di una chiesa, dove al posto della croce spunta la cannella ricurva di ferro grigioscuro, dalla quale sgorga fresca e dolce l'acqua di sorgente. Ci ha condotto qui un nipote dell'Eremita che appena sceso dal fuoristrada inizia a discutere col nonno animatamente. Litigano tutti e due, gridano ad alta voce e a modo loro questa è la forma con cui esprimono di essere contenti di rivedersi. Siamo venuti in cinque. E' nostro compagno un giovane esule jugoslavo di ceppo albanese. Peppuccio ha fatto la guerra in Albania, parla l'albanese come se fosse l'italiano e si ricorda ancora tutto. Ha 77 anni ma è ancora forte e robusto e la sua memoria è ancora pronta. Racconta di quando era in Albania, dei tremendi sacrifici che fece da soldato, parla delle donne conosciute durante la guerra, ricorda la sua donna morta prima che lui partisse in guerra e che non poté sposare, e impreca gridando contro suo nipote Gabriele perché porta l'orecchino. Peppuccio vive solo immerso nella campagna, nel cuore dei Monti della Tolfa, ed è lui che incarna l'ultima divinità boschiva di questi monti, un tempo sacri a Pan e a Diana dea della caccia. Va a dormire quando comincia a farsi scuro e si sveglia all'alba. Gli fanno compagnia i gatti, la vigna, e tutto il bosco che lo circonda. In paese ha la casa ma non ci va mai. Lì nel suo pezzo di terra c'è ogni ben di Dio. Quando l'albanese gli racconta che in Jugoslavia c'è la guerra e la fame, non si meraviglia più di tanto, e gli risponde compiaciuto che lui potrebbe sfamare dieci famiglie con tutto quello che coltiva e gli animali che alleva, ma in fondo è un uomo di fede. Ricorda con amore la ragazza che non poté sposare perchè morì di polmonite. E' sicuro che lei lo ami ancora e ogni tanto la vede in sogno. Questo gli porta bene. Quando sogna lei è sempre un buon auspicio. Anche in guerra la sognava, lei lo vegliava e lo confortava, e nei momenti più brutti lo proteggeva. Vive lontano dal paese ma non è quasi mai solo, tutti lo conoscono, molti vengono a trovarlo, specialmente i cacciatori. Gli portano sempre qualcosa, generi di prima necessità, latte, pane e lui accoglie tutti e li ricambia. A Natale il politico più importante di queste parti, lo va a trovare per fargli gli auguri e portargli un regalo. Sono con me Severo un insegnante di matematica, che non ha tradito la sua origine contadina ed è rimasto fedele al suo antico legame con la terra. La carne che mettiamo al fuoco è la sua, proviene dai vitelli del suo allevamento di vacche maremmane. E' uno dei pochi che con volontà e testardaggine è andato avanti nello studio con le proprie forze, dimostrando che le persone di qui - quando vogliono - non sono seconde a nessuno, anzi l'origine e la provenienza da questi luoghi sono per chi è poi riuscito ad affermarsi qui, con le proprie mani, la garanzia che riuscirebbero ad affermarsi con successo in qualsiasi altra parte del mondo. Discuto con lui l'abbandono, l'improvvisazione e l'incompetenza - associata alla presunzione - con la quale spesso la gente qui affronta il lavoro dei campi o l'allevamento degli animali. Non è quasi mai d’accordo con quello che dico. Insisto provocandolo e, andando più a fondo nella discussione, gli porto come esempio il fatto che nessuno senta la necessità di una scuola agraria. La parola zootecnia è priva di senso qui. Si trascurano le moderne tecniche di coltivazione, lo studio preliminare dei terreni, la ricerca della coltivazione giusta, la valutazione economica. Sono molti ad avere una vigna ma, non c'è una vera cultura del vino che - pur essendo genuino - quasi mai ha il sapore giusto. Le cantine spesso non son altro che “depositi di vino”, dove quasi mai ci si può mangiare, né ci si può intrattenere a lungo, al massimo si può bere qualche bicchiere alla spicciolata. L'unica regola pare, sia quella di fare le cose senza una regola precisa, basandosi sulla propria stella. Questa è una regola generale e assoluta: vale per l'edilizia, l'agricoltura, l'allevamento e la pesca, ma anche per la politica e l’istruzione. Ci si vergogna di ciò che è buono, bello, e razionale, e mal si sopporta l’ordine. Nelle campagne che attraversiamo si vedono baracche e casette per venirci a fare merende con amici o parenti, o per tenerci animali da allevamento. Esse sono l'idea precisa del disordine materializzatosi. Man mano che ci avviciniamo, passandoci davanti notiamo che sono costruite con ferraglie, buste di plastica, lamiere, fili e rattoppi, e dentro questi recinti vecchi bidoni arrugginiti - riconosciamo ad esempio quella che un tempo fu una vasca da bagno usata ora come abbeveratoio - pali di ferro arrugginiti, tubi contorti, reti smagliate, stracci, filo spinato, passoni di legno, tavole e mattoni ammucchiati alla rinfusa. Niente, meglio di queste baracche può darci l'idea della mentalità del luogo, ossia dell'inconscio collettivo di coloro che le costruiscono e quindi di ciò che sta a monte del loro comportamento sociale. Infatti l'urbanistica e il linguaggio rivelano il carattere di un popolo e ne costituiscono lo specchio fedele dell'inconscio collettivo. Come il carattere dei romani si rivelava nel rigore delle loro leggi, nella monumentalità della lingua latina, nella solidità dei loro edifici - che essi costruivano pensando all'eternità; come il carattere degli etruschi si rivelava nella raffinatezza delle arti e nella loro religione esoterica, in prospettiva dell'altro mondo, così il carattere della gente di oggi si rivela in queste baracche nelle campagne, negli anonimi palazzi, nella mancanza di leggi certe e nel modo di parlare dialettale: essi non costruiscono né per il domani, né per l'aldilà, e non avendo programmi, né sogni per il futuro, vivono il giorno per giorno. Qui dopo gli etruschi e i romani non ci sono più stati contadini, ma braccianti. L'albanese è seduto accanto a noi, su una panca fatta con una rudimentale asse di legno, poggiata su due tronchi d'albero segati. Continua a bere vino, sorride e conversa nella propria lingua con Peppuccio. Franco è architetto, è stato lui a portare con noi l'albanese, che a prima vista, non conoscendoci non voleva venire. Si sta occupando da solo di aiutare un gruppo di profughi jugoslavi, per rimediar loro giorno per giorno cibi e vestiario, e un luogo decente in cui alloggiare, dato che attualmente dormono in un contenitore di lamiera zincata, di quelli usati dai muratori nei cantieri per depositarci attrezzi e materiale da lavoro. Mi accorgo che anche la carità non ha regole precise, e c'è il profugo al quale si aprono le porte delle case, delle istituzioni, e il profugo che non ha diritto a nulla, che però trova sulla sua strada, inaspettato, un segno di speranza: un bicchiere di vino, che una mano - forse ruvida, ma sicuramente non pelosa – gli offre con quella sincerità e fratellanza che, nonostante tutto, solo il cuore di questi Monti sa dare.
Una risalita per pochi, il Monte della Tolfaccia, alla ricerca di quello che fu “Forum Claudii o Clodii”? Comunque un insediamento medievale abbandonato intorno al 1.500 con il nome di “Tolfa Nova”
L'ANTICO FORNO PER IL PANE
LA CHIESA
LE DUE “TOLFE” -
Dalla tesi di laurea dello studente DAVID FINORI, matricola n° 158 Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali Titolo:"LO SFRUTTAMENTO DELLE RISORSE MINERARIE DEI MONTI DELLA TOLFA IN EPOCA TARDO-MEDIEVALE" Anno Accademico 1999-2000 - UNIVERSITA' DEGLI STUDI DELLA TUSCIA VITERBO
---- omissis
PROFILO STORICO DEI MONTI DELLA TOLFA NEL PERIODO TARDO MEDIEVALE.
Prima di addentrarci nelle interessanti vicende che riguardano lo sfruttamento delle risorse minerarie nella regione tolfetana, e in particolare l'importante impresa alluminifera che per alcuni secoli diede a questo territorio prestigio e gloria a livello europeo, è bene tentare di ricostruire le fasi storiche di quei luoghi che furono teatro di questi eccezionali eventi. Inizieremo cercando di fare il più possibile chiarezza sulla storia di Tolfa, o meglio delle Tolfe; vedremo più avanti il perché dell'uso del plurale, partendo dalle prime notizie e dai primi documenti a noi pervenuti risalenti al periodo medievale. Presteremo poi particolare attenzione alle vicende storiche tardo medievali contemporanee al grande sviluppo dell'industria alluminifera. Va detto, come premessa, che la nascita dell'impresa dell'allume provocherà grandi ripercussioni, non solo economiche e demografiche, ma anche politiche, nella regione che si sta analizzando. Ritornando al discorso delle due Tolfe bisogna notare come a partire dal XII secolo troveremo nominate nelle notizie e nei documenti a noi pervenuti due diversi centri: Tolfa Nuova e Tolfa Vecchia. Ciò testimonia come la regione tolfetana, nel periodo tardo medievale, fosse territorialmente e politicamente divisa in due diversi domini che ebbero spesso vicende storiche parallele ma anche distinte. La storia dei due centri dovrà essere vista e studiata in un più ampio respiro di collegamenti e con la distinzione tra feudi baronali e liberi comuni.
Senza dubbio i molti documenti presenti nella "Margarita Cornetana" hanno indirizzato a valorizzare la storia di Tolfa Vecchia; ciò è naturale se si considera che questa prestava atti di vassallaggio al comune di Corneto. Al contrario, poche sono le notizie relative alle vicende di Tolfa Nuova, quando invece quest'ultima presentava una precisa autonomia locale. A consolidare la posizione storica di Tolfa Vecchia si aggiunse l'esplosione economica del XV secolo dovuta all'industria dell'allume, in conseguenza della quale Tolfa Nuova venne distrutta. Sembra quindi naturalmente scontata la cancellazione dalla memoria delle vicende storiche alle quali Tolfa Nuova partecipò attivamente. L'interesse alla sua storia si accentua sempre di più quando la tradizione locale, confortata da una serie di autori fino al secolo scorso, ritenne di dover localizzare a Tolfa Nuova il centro abitato romano di "Forum Clodii" o "Claudii" che gli studiosi moderni collocano presso la modesta chiesa di S. Liberato, nei dintorni di Bracciano.
1. LE PRIME NOTIZIE.
La prima notizia che riguarda Tolfa Nuova e di riflesso Tolfa Vecchia la fornisce Annio da Viterbo. Il frate viterbese, che visse nella seconda metà del Quattrocento, periodo in cui Tolfa Nuova esisteva ancora, riporta nei suoi "Commentari su due frammenti dell'itinerario di Antonino Pio (Antiquitatum variarum volumina XV) " le seguenti parole: "Forum novem pagorum Claudii ab hac Tulfa Nova: olim Foro Claudii: recta via est in Tarquinias" e dice anche "Est igitur Tulfa Nova inclyta praefectis Romanis usque ad tempora nostra: quae destructa a Saracenis nomen Claudium perdidit et a reparatoribus vicinis Tulfanis Veteribus nomen desumpsit" (2). Prima di commentare questa testimonianza è bene ricordare i giudizi negativi dati su Annio e come questi gravino sull'affidabilità della sua opera. Recentemente si è registrato un tentativo di rivalutazione dello storico viterbese, anche se nel complesso l'autore rimane poco credibile. A conferma di ciò notiamo come gli storici moderni si siano indirizzati verso una diversa ubicazione di Forum Claudii nei pressi della chiesa di S. Liberato, sita nelle vicinanze di Bracciano (3). Nonostante ciò, per quanto riguarda il presente studio, vale la pena analizzare, con le dovute precauzioni, la testimonianza lasciata da Annio, soprattutto per le interessanti spiegazioni che fornisce sull'origine di Tolfa Nuova e sul suo nome.
Secondo la notizia anniana, nei tempi in cui le scorrerie saracene desolavano la Tuscia, esisteva, non lontano dal mare, sul monte ora detto della Tolfaccia, un centro romano da lui identificato col Forum Claudii dell' "Itinerario" di Antonino Pio. Durante una delle numerose incursioni, quando l'opera devastatrice dei nuovi barbari s'estese anche nell'entroterra, il centro fu distrutto e gli abitanti furono costretti a cercare rifugio presso Tolfa (Vecchia). Si deduce inoltre che, dopo un certo periodo di cui non sappiamo la durata, furono proprio gli stessi fuggiaschi, o i loro eredi, con l'aiuto dei tolfetani, a ricostruire l'antico centro abitato, che perse allora il nome di Forum Claudii e prese quello di Tolfa Nuova. Venne così naturale che per necessaria differenziazione si desse l'attributo di "Vecchia" all'altra comunità. Si tratterebbe di un fenomeno simile a quello di molti altri centri limitrofi (4). E' inoltre molto difficile cercare di datare tali avvenimenti; a tutt'oggi non è ancora possibile. Di sicuro sappiamo che nel momento in cui avvennero le incursioni saracene Tolfa Vecchia già esisteva e forse era già munita di qualche fortificazione. Certo è che se si accettasse come veritiera la testimonianza di Annio avremmo una serie di risposte valide a questioni storiche di non poco interesse; prima tra tutte la presenza in epoca tardo medievale di due Tolfe, topograficamente così vicine ma con vicende storiche tanto diverse. Il frate viterbese è infatti il primo cronista che evidenzia la distinzione tra i due nuclei abitativi e spiega il motivo per cui Tolfa Nuova apparteneva alla prefettura romana ed era direttamente collegata alla potente famiglia dei prefetti Di Vico. Chiarisce poi perché i due centri erano chiamati allo stesso modo: Tolfa, con i diversi attributi di "vecchia" e "nuova". Ciò deriverebbe dal fatto che Tolfa Nuova era stata ricostruita dagli abitanti di Tolfa Vecchia, ovvero da coloro che a Tolfa Vecchia si erano ritirati durante le invasioni saracene. Dopo Annio altri affermarono la corrispondenza tra Forum Claudii e Tolfa Nuova. Il primo fu il Volaterrano (1455-1522) (5) che, basandosi su Plinio e Strabone, pone a Tolfa, senza distinzione, tanto il Foro di Claudio quanto la prefettura. Alla metà del XVI secolo toccò a Leandro Alberti (1479-1552) (6) confermare la corrispondenza tra Forum Claudii e Tolfa Nuova. L'autore cita Strabone, Plinio, Antonino e Tolomeo (7) e riprendendo Annio e il Volaterrano, aggiunge che nelle vicinanze c'era la prefettura e la via Claudia.
Per quanto riguarda le testimonianze locali ne abbiamo una risalente al 9 marzo 1636, quando il consiglio comunale di Tolfa, nell'avanzare istanza al papa per ottenere l'area necessaria alla costruzione della chiesa di Cibona, iniziò la risoluzione con le seguenti parole: "Si pregiano i nostri antichi che questa nostra terra avesse i suoi primi fondamenti da un mercato nobilissimo istituito da Claudio perlocchè da Plinio, da Strabone e da Tolomeo vien chiamato Forum Claudii'.
Un'ulteriore testimonianza la ricaviamo dal Morra che la riprende, a sua volta, dal settecentesco manoscritto Buttaoni: "Tolfa nova credo quod fuerit prope Forum Clodij, et quia circa ipsum erant novem pagi, et Praefecturae, et antiquitatis viarum latarum selicibus pulcherrimis constitutarum demonstrat nec non Tolomei Tabulae et aliorum. Ibi Sanctus Protegenes martir fuit quodam tempore relegatus. "'. (9) Anche qui si afferma che il Foro di Claudio si trovava nelle vicinanze di Tolfa Nuova ed intorno ad esso il manoscritto pone i nove villaggi di Plinio e la prefettura. In sostanza, fino al XVII secolo era ritenuto che Forum Claudii fosse stato nelle vicinanze della medievale Tolfa Nuova. L'inversione a questa tendenza venne data nel 1624 dal Cluverio che cercò di localizzare Forum Claudii sulla base dello studio delle strade antiche; l'autore così si esprime: "... hinc errarunt illi, qui Forum Claudii interpretati sunt oppidum Tolfam... ", e aggiunge: "totus autem Ager Praefectura Claudiae, circa Forum Claudii, in novem portiones distribuitus fuit, qui Novem Pagi dicebantur"(10) Da questo momento in poi iniziò l'altalena di ipotesi sulla localizzazione del Foro, fin quando nel 1859 lo storico Desjardin, dopo una serie di interessanti studi, propose di localizzare Forum Claudii nei pressi della chiesa di S. Liberato nei dintorni di Bracciano. La tesi dello studioso francese è stata confermata con autorità dal Tomassetti nel 1913 e, fino ai nostri giorni, chiunque si sia cimentato nello studio di tale argomento ha indicato come base di partenza l'opera del Tomassetti. Di fronte a tale storico sembra inutile e fuori luogo ogni osservazione, va detto però, che il Tomassetti svaluta completamente l'importanza storica ed economica dei monti della Tolfa . Nella sua importante opera "La Campagna Romana"(11) Tolfa è presa in considerazione solo indirettamente quando si parla delle vicende di altri centri.
A questo proposito, ci sembra giusto ricordare che in questi ultimi anni sono riprese nella zona della Tolfaccia (Tolfa Nuova) ricerche archeologiche attorno ad un vasto insediamento romano che potrebbero fare nuova luce sulla vicenda. Fino a pochi anni fa si pensava che questo non fosse altro che una tipica villa rurale con vocazione prettamente agricola. Grazie ai recenti scavi si è però notato che l'insediamento in questione mostra caratteristiche particolari che lo differenziano dalle altre ville rurali presenti sul territorio. In attesa di ulteriori scavi chiarificatori è bene ripetere ancora una volta come a tutt'oggi sembra impossibile accettare l'ipotesi di Annio, almeno per ciò che riguarda la derivazione di Tolfa Nuova dall'antico centro di Forum Claudii. Più interessanti, anche se bisognose di ulteriori verifiche, sono le altre informazioni fornite dal frate viterbese. Annio, infatti, è il primo autore che mette in evidenza l'esistenza di due centri distinti denominati rispettivamente Tolfa Vecchia e Tolfa Nuova; fornisce anche una spiegazione, abbastanza verosimile, al perché di questo fenomeno e aggiunge una giustificazione al fatto che, ancora ai suoi tempi, Tolfa Nuova era legata alla prefettura romana. Concludiamo ricordando che le argomentazione sopra esposte andrebbero vagliate con più attenzione. Certo è che se fosse possibile considerare come veritiera l'ipotesi di Annio, avremmo un importante testimonianza delle vicende storiche delle due "Tolfe".
2. NOTIZIE DOPO IL MILLE.
Dopo aver brevemente accennato a quella che può essere considerata soltanto un'affascinante ipotesi storica, bisogna notare come per trovare notizie certe relative ai monti della Tolfa sia necessario varcare l'anno Mille. La più lontana notizia che abbiamo a disposizione la fornisce il Morra che la riprende dalle carte di uno storico locale, il Bartoli, (12) dove però non è specificata la fonte. Questo è il brano riportato dal Morra: "Fra i due popoli di Farnese e Bisenzio (sic, per Bisenzo, castello sulle rive del lago di Bolsena, non lontano da Capodimonte) nacque questione sulla limitazione dei confini. A decifrarla reso inutile ogni mezzo, fu giuoco forza sperimentare le armi. Siccome l'uno dei paesi era di parte Guelfa e l'altro apparteneva alla fazione Ghibellina, concorsero in detta guerra i Capitani dell'uno e dell'altro Stendardo recandovi le popolazioni di Corneto, di Tolfa, di Vetralla ". In altra parte della stessa pagina (ove in luogo di Vetralla è menzionata Toscanella) è detto: "La guerra ebbe luogo nel 1037, epoca la più remota che ci fu dato rinvenire improntata al nome del nostro castello "(13). Quale testo abbia consultato il Bartoli per rinvenire questa contraddittoria notizia non è conosciuto, rimane però qualche dubbio sulla sua veridicità. Un'altra notizia simile alla precedente, di qualche anno più tardi, ce la fornisce il Polidori nelle sue "Croniche di Corneto". Egli ci informa che nell'anno 1060 "li Viterbesi, Cornetani, Tolfetani, et Vetrallesi per causa de dispiaceri riceuti dalli Prefetti di Vico furono astretti a collegarsi, et a prender l 'arme contro d'essi Prefetti, et contro li Signori di Bisenzio loro parteggiani et venutosi a fatto d'arme furno astretti li suddetti Prefetti et Signori di Bisenzio salvarsi con la loro gente in Montefiascone "(14). Questa seconda notizia può essere considerata autentica per due motivi sostanziali: il primo perché prevede un'alleanza che, per le volte che sarà ripetuta, può essere considerata storica; il secondo perché è stata riportata dal Manente, ripresa e convalidata da una numerosa schiera di storici e cronisti. Il Manente così si esprimeva: `In quest'anno, Viterbesi, Tolfani, Cornetani e Vetrallesi mossero guerra a li Signori Prefetti di Vico i quali si ritirarono in Montefiascone con li Signori di Bisenzio '' (15). Va aggiunta, ancora, la concreta possibilità che a partecipare all'azione furono i signori di Tolfa Vecchia, visto che quelli di Tolfa Nuova parteggiavano per i prefetti Di Vico.
Da queste prime notizie, abbastanza scarne e isolate, si può già azzardare un'interessante deduzione. Appare evidente, infatti, che la storia dei centri siti sulle alture dei monti della Tolfa, fu strettamente legata a quella della famiglia dei prefetti Di Vico, che un ruolo importante dovette svolgere nella storia del Patrimonio. Ritornando alle prime notizie riguardanti Tolfa ne troviamo una particolarmente interessante datata 1075. Molti sono gli autori che la riprendono; per brevità si riportano di seguito soltanto i due più completi: il Manente e il Morra. Il primo riporta che “in tal tempo (1074) (sic. 1075) fu spiantata la Tolfa per essere stata contraria alla Chiesa Romana. Nel detto anno Cencio Romano inimico della quiete e religion Cristiana prese con le sue genti la notte di Natale Papa Gregorio VII".(16) Il Morra che riprende dal Bartoli e dal Moroni così riporta: "... la Tolfa nell'anno 1074 (sic.1075) fu rasa al suolo per essersi ribbellata alla Chiesa, opera del sacrilego Cincio figlio di Stefano Prefetto "(17).
Ci sembra giusto, a questo punto, spendere qualche parola su questi avvenimenti soffermandoci, in particolare, sulla figura di Cencio (Cincio) (18). Siamo al culmine della lotta che va sotto il nome d'investitura tra Gregorio VII (1073-1085) ed il giovane Enrico IV. La nobiltà romana era capeggiata da Cencio, rampollo feroce del prefetto Stefano (Prefetti Di Vico), considerato uno scellerato, reo di adulterio e di tutti i peggiori delitti. Caporione del partito di Candalo, il suo comportamento somigliava a quello di un secondo Catilina. Suo padre era stato prefetto della città ed aveva mantenuto il suo ufficio anche con l'avvento del partito degli Ildebrandini. Prima di morire aveva espresso il desiderio che il figlio gli succedesse nella prefettura; ma, anche se lo desiderava molto, Cencio non riuscì ad ottenere tale carica. Nel 1073 il partito riformatore elevò alla carica della prefettura il pio Cinzio figlio di Giovanni Tiniosi che Ildebrando aveva creato prefetto nel 1058. Due personaggi quasi simili ma soltanto nel nome: Cencio veniva dipinto come un diavolo che prega e ammazza; Cinzio come un santo che mentre prega emette le sentenze relative al suo ufficio. La sera della vigilia di Natale 1075, mentre il papa celebrava la messa, Cencio irrompe in chiesa prelevando Gregorio VII e portandolo in una sua torre. La mattina seguente è tutto risaputo. Cencio è umiliato da tutti per la sua condotta maldestra che non gli ha consentito di portare il papa fuori dalla città. Cencio implorò la grazia al papa che gli impose di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme. Gregorio VII fu così liberato e, mentre il popolo radeva al suolo le case di Cencio e dei suoi partigiani, andò a terminare la messa interrotta. Cencio non andò a Gerusalemme ma nel 1077 morì improvvisamente a Pavia. Cinzio invece, a cui Gregorio VII aveva affidato la città di Roma durante la sua assenza, cadde alla fine dell'anno in un'imboscata tesagli in campagna da Stefano, fratello di Cencio. I suoi compagni piansero la morte del prefetto, assalirono la rocca di Stefano, lo fecero a pezzi, portarono la sua testa davanti a S. Pietro e punirono i complici con la morte o con l'esilio.
Il breve racconto appena riportato dimostra che la notizia secondo la quale Tolfa fu rasa al suolo nel 1074 o 1075 per essersi ribellata alla Chiesa potrebbe essere vera. I personaggi rivali ci sono tutti compresi i prefetti che indubbiamente danno l'autenticità che si tratti di Tolfa Nuova in quanto appartenente alla prefettura. Severinam "(19). La forma plurale del nome Tolphas fa pensare al fatto che i due centri, Tolfa Vecchia e Tolfa Nuova, si trovano in questo caso accomunati dallo stesso destino.
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Vanì, 01-04-2012